Il collasso del Pd in Umbria non è dissimile dalla marginalizzazione della Rai sul web. Anzi potremmo dire che il secondo aveva largamente anticipato e spiegato il primo. I due fenomeni hanno in comune sia il target – un pubblico prevalentemente anziano, legato alla spesa pubblica, erede di antiche battaglie e orfano di nuove identità – sia una logica verticale e pedagogica, in cui una struttura dirigente determina contenuti e modalità di fruizione del servizio, sia esso un programma tv o un progetto di legge.
Una verticalità che appare sempre più stridente in questa società disintermediata. Inoltre sia la Rai che il Pd patiscono il logoramento e la mancanza di legittimità del concetto di pubblico, prima ancora che di stato. L’idea che un apparato o un sistema terzo fra le parti sociali privati possa preordinare o pianificare soluzioni e attività oggi non è per niente istintivo o condiviso. Spettacolare la svolta che abbiamo visto sotto i nostri occhi in queste ore in una regione tipicamente “pubblica” quale è stata l’Umbria, che in pochissimi anni ha visto esattamente lo stesso consenso che aveva sorretto la strategia amministrativa basata sulla formula di servizi più inclusione rivoltarsi esattamente nel suo contrario, con la richiesta di sostituire il bene comune con il benessere individuale.
Se proviamo a sovrapporre la parabola declinante della vecchia tv generalista a quella della sinistra cogliamo subito un parallelismo perfetto. Il welfare cade insieme ai suoi artefici.
Come spiegava Zygmunt Bauman, il cambio di paradigma tecnologico è la conseguenza e non la causa della scomposizione delle grandi categorie di coesione sociale: lavoro di massa, consumi di massa, mass media, che vengono sostituite da forme del tutto inedite di organizzazione dei comportamenti quali il lavoro individuale, i consumi personalizzati e i media on demand. In questa sostituzione troviamo le ragioni dello tsunami istituzionale che sta sconvolgendo l’intero atlante geopolitico internazionale. Nessun paese è rimasto eguale a se stesso in questi ultimi anni. L’Umbria ha resistito fin troppo.
È in questo gorgo che rovescia il pubblico in privato e il collettivo in individuale che prende forma la società dell’insoddisfazione e del rancore, che sta minando alla radice tutti gli assetti geopolitici globali, ad ogni latitudine del pianeta. L’Umbria, come la Catalogna, il Cile, la Turingia tedesca, ne è uno dei laboratori. Il filo che sembra unire diversi scacchieri elettorali e sociali è la convergenza fra il ribellismo rancoroso dei ceti subalterni e la competizione antistatalista delle figure proprietarie e patrimonialiste, quelle che il sociologo Luca Ricolfi nel suo ultimo saggio chiama “le nuove Signorie patrimoniali”. Joker, per richiamare l’icona della marginalità anarco-conflittuale metropolitana che ci racconta il magistrale film di Todd Philipps, va a braccetto con i siur Brambilla del Lombardo-Veneto per cercare una propria strada al successo, perfino dando per scontato la sua sconfitta finale. Come scriveva Hannah Arendt nel suo saggio sui totalitarismi negli anni Trenta, anche allora “le plebi irruppero nella storia anche a costo della propria distruzione”.
Non sono più i bisogni comunitari quanto i desideri di ogni singolo a caratterizzare le rivendicazioni sia dei subalterni sia degli emergenti.
Un segnale forte di questa nuova base sociale della destra populista lo troviamo in quel networking di schermi e piattaforme che ha sostituito il tradizionale televisore da salotto.

Nelle classifiche delle piattaforme televisive “total audience”, apparse in questi giorni, dove si misurano gli indici di utenza dei sistemi multimediali su tutti i dispositivi, sommando alle residuali platee tradizionali della tv lineare i click su smartphone, tablet o computer, che in maniera asincrona prolungano la vita del programma anche molti giorni dopo la messa in onda, ci appare un’Italia che non è nemmeno lontana parente del paese a cui si rivolgono i palinsesti del servizio pubblico. Intanto, nei numeri: in soli cinque mesi i video visti in streaming online sono arrivati a tre miliardi di contatti. Le decine di milioni di spettatori della vecchia audience sono poco più che un circolo della caccia rispetto a uno stadio di calcio al completo.
Poi, nella qualità della relazione e dei contatti che si realizzano.
Scorgiamo nelle cosiddette nuove metriche di utenza, capaci di misurare proprio il nostro elettrocardiogramma emotivo personale, una comunità di utenti televisivi pulviscolare, che s’aggrega, occasionalmente, in momenti, contesti e motivazioni assolutamente diversi fra loro. Il programma prescelto, sia esso un talent come X Factor (cento milioni di streaming in rete) o un reality, o la reimpaginazione di un approfondimento giornalistico e di una rubrica sportiva, diventa per ognuno delle centinaia di migliaia di utenti un messaggio e un pretesto differente per acquisire e catalogare quel tipo di esperienza televisiva. Nessuno vede mai lo stesso programma, tutti producono però dati e opinioni su ogni programma, che si personalizza, profilando il suo utente che, di fatto, diventa un coproduttore. Elemento questo che sembra non essere percepito in casa Rai. Infatti la risposta dell’azienda pubblica all’offensiva di Netflix e Amazon TV è la piattaforma RaiPlay, dove nei prossimi giorni è annunciato il lancio del nuovo programma di Fiorello. Ma siamo alle solite, si cerca di adattare il modello broadcasting, da uno a tanti, alla liquidità del web, proponendo online un sistema di palinsesto rigido e preordinato che si rivolge a una platea di massa contemporanea. S’annuncia un disastro.
Questa dialettica fra fruizione solitaria e differita – un’ora dopo, il giorno successivo, qualche settimana più tardi – è poi composta in un profluvio di commenti, link e rimandi in rete che porta ognuno a ricreare il programma presso il proprio gruppo di riferimento. L’individualismo più sfrenato paradossalmente ricrea uno spazio pubblico, un’agorà, dove è l’utente e non la performance televisiva il protagonista. Questa immersione permanente nel proprio arrivismo digitale rende del tutto desueta e limitata la vecchia esperienza dei partiti, che saltuariamente ti chiamavano a partecipare a riti per lo più già scontati.
La mobilitazione promossa da Salvini, che ha arruolato le sue compagnie di ventura dando un obiettivo comune – l’abbattimento del regime Pd – e un vantaggio immediato – un lassismo fiscale che lascia ognuno padrone della propria partita IVA – risponde plebiscitariamente a questa domanda coltivata dalle frequentazioni della streaming tv. I Cinque Stelle avevano provato, con la suggestione della piattaforma Rousseau e di uno vale uno, a sintonizzarsi con questa domanda di partecipazione. Ma il gioco si è rotto con il tatticismo del gruppo dirigente. La logica plebiscitaria, dove la partecipazione è solo adeguamento a una mobilitazione dall’alto, funziona quando si è sempre in movimento, con un nemico e un bersaglio, non quando si deve cominciare a fare guerra di trincea, appostandosi e blindandosi in posizioni conquistate. Per il Pd il problema è più radicale, e riguarda la ragion d’essere di un partito che ancora coltiva le mitologie di radicali correzioni sociali, eguaglianza e democrazia, ma senza avere ormai una base sociale che lega i propri destini a questa missione.
Il Pd rimane sostanzialmente un palinsesto Rai, diretto a una platea stanziale, subalterna e dipendente, mentre la destra si è impossessata del neo futurismo dello streaming tv, facendo del movimento un messaggio in sé. Ricomporre questa forbice significa riportare al centro della scena l’unico meccanismo che rompe l’incantesimo plebiscitario e costringe la destra a scegliere fra proprietà e assistenza, che è un conflitto sociale che miri a spostare radicalmente quote consistenti e non sostenibili di ricchezza dalle aree proprietarie a quelle produttive. Una soluzione la indica il programma del Labour Party, che propone un radicale riduzione di orario di lavoro per ridistribuire i dividendi tecnologici al lavoro e non solo ai gestori delle piattaforme. Un modo per staccare Joker da Brambilla, e riportare al centro della competizione tecnologica la contrapposizione fra estrattori di valore e creatori di valori, una volta si sarebbe detto, rendita e profitto.

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1 commento
In altri tempi si sarebbe detto “parla come mangia”. Linguaggio nebuloso, filologicamente confuso con qualche forte sentore di burocratismo sistemico che si rivolge alla cerchia di “quelli come noi che possono capire”. In pratica la spiegazione del fallimento di un cero ceto politico.