Per chi ha vissuto parte del cinquantennio democristiano senza simpatie per quella famiglia politica la Dc era, al tempo stesso, esasperante e rassicurante. Non ci si dava pace per quella incredibile capacità di non decidere mai nulla di definitivo senza che ciò avesse conseguenze sostanziali sul consenso elettorale. Ma si vivevano le elezioni, pur facendo il tifo per la squadra avversaria, senza patemi, perché l’orizzonte politico era sgombro da rischi di torsioni autoritarie o involuzioni populiste. E frequentando, per dovere professionale, i democristiani grandi e piccoli, si scoprivano cervelli di prim’ordine accanto a traffichini da sottobosco. Come potevano convivere? Come potevano conciliarsi la visione strategica e l’elaborazione culturale, che pure c’erano, con il mercato delle tessere e dei favori, con le reti di potere nei territori, con le abitudini clientelari?
A queste e ad altre domande prova a rispondere Marco Follini con il suo libro Democrazia Cristiana. Il racconto di un partito, edito da Sellerio. L’autore è uno degli ultimi prodotti pregiati della Dc: ha cominciato da segretario del movimento giovanile nel 1977 per poi far parte a lungo della direzione nazionale. Con lo scioglimento del partito si ritrova a fianco di Pierferdinando Casini nella nuova formazione del Ccd che entrerà in coalizione con Berlusconi. Ma tra Follini e il Cavaliere non c’è feeling e, anzi, cominciano presto a scoccare scintille. Così Follini lascia il centro destra e, dopo una breve esperienza nel Pd di Bersani, lascia anche la politica per dedicarsi alla scrittura.

Ora: sulla Dc sono state scritte molte cose, ma questo è un libro davvero diverso. Pochi aneddoti, anche se gustosi, e quasi niente sui passaggi politici cruciali. E questo perché l’intenzione è di raccontare l’anima del partito, quel singolare miscuglio di potere e di felpatezza, di identità e permeabilità, che costituiva la sua essenza.
Il potere:
Ci confortava e ci inquietava. Era un coltello a doppia lama, e una di quelle lame poteva alla fine ferire proprio noi. La concezione cristiana della politica reclamava da noi, per quanto possibile, la desacralizzazione del potere: ma la nostra pratica di governo finiva poi per riconsegnarci al suo idolo.
Naturalmente c’era chi nel potere si trovava benissimo e chi invece lo viveva con ansia, e l’esempio è facile: Andreotti era il primo caso, Moro il secondo. Ma questo spiega la felpatezza:
Si trattava di combattere gli avversari inglobandoli, di contrastarli assumendo alcune delle loro ragioni…E questo modo di condurre le cose, è ovvio, non si conciliava più di tanto con lo sventolio orgoglioso delle nostre bandiere di parte.
E qui arriva l’ossimoro: identità e permeabilità. E aiuta una famosa citazione di Moro rivolta ai comunisti:
Quello che voi siete noi abbiamo contribuito a farvi essere, e quello che noi siamo voi avete contribuito a farci essere: non è mancata in questi anni una reciproca influenza tra le forze, e quale che sia la posizione nella quale ci si confronta qualche cosa rimane di noi negli altri e degli altri in noi.

Ma quello che forse era il carattere distintivo più sconcertante della Dc era la lotta incessante tra le correnti. Una lotta durissima e senza esclusione di colpi. Basti ricordare che le mille crisi di governo del cinquantennio democristiano non erano provocate, come accade ora, da scossoni elettorali o da cambi di alleanze, ma solo ed esclusivamente da cambiamenti degli equilibri interni del partito. E qui si registrano parole feroci. Come quelle di Fanfani che liquidò una rivolta contro di lui dei giovani del partito con un lapidario: “Ricordatevi che chi è bischero, è bischero anche a vent’anni”. O quelle con cui De Mita, dirigente della sinistra di Base, si rivolse proprio al giovane moroteo Follini, che aveva appena terminato il suo primo discorso al Consiglio nazionale:
Prima di sentirti parlare non ti conoscevo. Ma devo dire che, anche dopo averti sentito parlare, continuo a non conoscerti.

Come ha potuto la Dc restare unita per decenni? Follini lo spiega così:
I confini che ci dividevano dagli altri avevano bisogno della nostra forza, quelli che si tracciavano tra noi avevano bisogno piuttosto della nostra prudenza. E noi ci facevamo vanto di saper combinare quella forza e quella prudenza.
Ci sono riusciti per molto, moltissimo tempo. Ma non sono riusciti a vedere la tempesta che stava arrivando. Questo nel libro non c’è. Non c’è l’incontro fatale col craxismo, che produsse la trasformazione delle correnti democristiane in potentati sempre più avidi di denaro svuotandole di visione ed elaborazione politica. Non c’è l’appannamento della ragione, comune a tutti gli altri partiti della prima repubblica, che impedì di capire i mutamenti sociali che richiedevano nuovi strumenti di governo. Queste cose non ci sono perché non è questo l’oggetto del libro. Follini voleva spiegare psicologia e metodo dell’essere democristiani, ed ha raggiunto il suo obiettivo. Con nostalgia, ed è comprensibile, ma anche con sincerità ed onestà intellettuale.


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