Mediobanca ha messo nel mirino le grandi aziende tecnologiche, mostrando con i suoi numeri lo stato di privilegio e arroganza istituzionali in cui queste imprese prosperano. Siamo alla cronicizzazione dell’elusione fiscale, che diventa anche pesante ricatto sugli stati in nome di masse monetarie gigantesche che vengono spostate per sostenere questo o quel debito pubblico, o affossarlo.
Ottocento miliardi di capitali liquidi che vagano per il mondo e determinano la fortuna di questa o quella borsa. Si calcola ormai che il settanta per cento delle risorse manageriali e di tempo della Silicon Valley siano occupate ogni giorno per ottimizzare l’uso di questi soldi. Il tutto al di fuori delle più ordinarie imposizioni fiscali. La media d’imposizione che grava sulle attività del big tech è attorno al quattordici per cento, un terzo in meno rispetto alle aliquote più privilegiate del sistema fiscale americano.
Non parliamo poi dell’Europa, o dell’Italia in particolare: su 2,5 miliardi di euro di fatturato nel 2018 sono state pagate tasse solo per 64 milioni di euro, più 39 di multe successive.
La web tax, o meglio il rientro nel circuito legale di queste vere e proprie repubbliche corsare che navigano sul mercato virtuale globale diventa così un’emergenza. Ma non ne è la principale. C’è un’altra tassa che deve essere regolarizzata, questa volta gli esattori sono proprio gli evasori fiscali e riguarda la libertà: grava ormai su tutti i sistemi democratici un’imposta che ognuno di noi paga nella subordinazione dei suoi comportamenti e delle proprie opinioni a sistemi cognitivi invasivi e pervasivi.
La prima affermazione della nuova presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha toccato proprio questo tema: il digitale è un’emergenza civile in Europa. La letteratura è vasta, fin troppo. Più debole appaiono invece le procedure e le strategie per rendere appunto civile quella straordinaria opportunità che il sistema degli automatismi computazionali offre all’emancipazione dell’umanità. Il buco nero che abbiamo dinanzi tocca proprio un aspetto strutturale e costitutivo del sistema digitale, ovvero l’uso e il suolo della soggettività in un mondo che tratta appunto di scelte soggettive.
Siamo sul ciglio di un terribile vulcano in cui si può morire di libertà malintesa.
Nel 1966 Theodor Adorno, tornando a occuparsi della tragedia del nazismo, con lo splendido saggio Educazione dopo Auschwitz (Einaudi, Torino 2005) coglie, come ragione del consenso massiccio raccolto da Hitler, in quel senso di frustrazione e rancore prodotto, nella gente comune, nelle aree popolari e di ceto medio periferico, dalla perdita di ogni speranza per una vita soddisfacente e attiva. Quasi parlando all’oggi, all’onda montante di un populismo disperato, Adorno scrive:
Bisogna accettare che il nazismo e terrore sono collegati alla decadenza e al rovesciamento delle vecchie autorità, mentre le persone non erano ancora pronte all’autodeterminazione. Hanno ricevuto la libertà e non se ne sono dimostrate all’altezza.

Straordinaria, laica, eversiva e lucida visione dei meccanismi che oggi stanno affilando le armi degli eserciti sovranisti, che agevolmente possono sostituire con l’etnia e la nazione, la promozione sociale e un progresso personale di cui sembrano essersi perse speranze e promotori.
Più dettagliatamente, nelle sue analisi sulle Origini dei totalitarismi, Hannah Arendt spietatamente spiegava come l’individuo, nella sua progressiva separazione dalla dimensione collettiva di popolo,
sentendosi insignificante, sacrificabile, politicamente isolato e solo, innesca il terrore totalitario. [Sono proprio le plebi, conclude la Arendt], a chiedere sangue, irrompono nella storia anche a costo della propria distruzione.

Questa chiave di lettura delle dinamiche sociali finalmente ci dà una ragione di cosa sia realmente accaduto negli ultimi trent’anni, di cosa mai abbia potuto sconvolgere equilibri, istituzioni, culture e valori tali da rendere la Svezia e l’Emilia, Parigi e l’Umbria, Chicago e Pisa, terre – benché sazie, o proprio perché sazie – di visceralismi gretti e aggressivi.
La scomposizione delle classi, la frammentazione delle comunità, hanno lasciato milioni di individui nelle condizioni osservate negli anni Trenta da Adorno e dalla Arendt: promotori di odio e di accaparramento per la paura della propria irrilevanza.
Il mondo diventa troppo vicino e incombente per essere abitato da chi si sente “isolato e solo”. E il terrore domestico diventa l’unico rifugio. In questo contesto si capisce cosa sia accaduto dopo il 1989, non con la caduta del muro di Berlino, ma con la pubblicazione del codice web, che nello stesso anno comincia a far correre la storia, legandola a un solo binario, quello dei padroni delle piattaforme, che centralizzano ricchezze e poteri

Shoshana Zuboff con il suo Capitalismo della sorveglianza (Luiss edizione, Roma 2019) sintetizza in questo modo le conseguenze di un regime che trasforma la pretesa di libertà individuale in una rassegnazione alla subalternità organizzata:
Ecco la tempesta che raccoglieremo con il capitalismo della sorveglianza: un capitalismo brutale e senza precedenti che sta contribuendo ad affossare le democrazia, facendo piegare i popoli alla sua volontà sussurrata. Ci dà tanto ma vuole molto di più.
Sporgersi su questo burrone, in cui un incontrollabile e incontrastato potere scambia subordinazione con comodità di vita, determinando comportamenti e linguaggi sociali lascia spauriti.
L’indignazione, come sentimento e come reazione, non solo non è adeguata, ma devia e distorce i termini del problema, riducendo tutto ad un destino cinico e baro, in cui si corrompe il bene e si afferma il male. È una visione che non aiuta a colmare quel vuoto di protagonismo che determina la deriva populista.
Così come non è sufficiente, per quanto necessaria, la via giudiziaria, in particolare la carta antitrust, come giustamente propone la candidata alle primarie presidenziali democratiche senatrice Warren.
Rompere il gigantismo e l’organicismo di certe corporation aprirebbe spazi e limiterebbe la discrezionalità prescrittiva, ma non sarebbe sufficiente a rovesciare il senso dell’egemonia degli OTT, e più in generale il dominio di chi è titolare dei sistemi computazionali.
Per questo, ancor meno funzionale mi sembra la via statalista, basata su un restringimento delle norme legislative, per ridurre la libertà d’azione dei corsari digitali, o per introdurre, come si chiede sulla base di ragionamenti che non sono per nulla campati in aria, un pluralismo d’imprese, per spingere Europa e nazioni a mettere in campo propri campioni.
Certo che una popolazione di soggetti che rendano i latifondi delle multiproprietà sarebbe un modo per ridimensionare lo strapotere di pochi padroni del sistema. Ma non risponderebbe alla minaccia totalitarista, adombrata da Adorno e dalla Arendt.
Dopo cinquant’anni di rete bisogna dare una risposta matura e robusta alla vera sfida che i vincitori di quella prima fase evolutiva hanno lanciato al mondo: si domina perché si sa tutto, e si sa tutto perché possiamo misurare tutto.
È questo l’assioma che ha prodotto, dopo mezzo secolo un popolo della rete che in pochi anni passa dalle primavere arabe a Cambridge Analytica, da Occupy Wall Street all’elezione di Trump, dagli indignados spagnoli alla Brexit telecomandata inglese. Quale potere può, indifferentemente, passare da una dimensione all’altra, da una temperie all’altra, da un senso comune all’altro, se non chi è in grado di ricomporre e rendere permanentemente una visione del mondo completa e conclusa? Ed Finn nel suo saggio Che cosa vogliono gli algoritmi (Einaudi, Torino 2018) descrive così quella che lui definisce “la consiglienza del calcolo”:
un percorso di unificazione di tutti i campi della conoscenza in un unico albero: un’ontologia dell’informazione fondata sull’idea che l’elaborazione [del calcolo, NdR] sia un solvente universale che può districare qualsiasi sistema complesso, dalla coscienza umana all’universo stesso.

È questa una visione che trascende e prevale addirittura sulla proprietà delle imprese e degli algoritmi, ed è insita nella magia stessa del dispositivo automatico che risolve un problema con la pretesa che la sua sia l’unica soluzione accettabile.
Sia pure mio, diciamo anche di una comunità caritatevole, di un’azienda pubblica, nazionale o europea, ma questo solvente non può agire sempre e solo senza attrito.
Deve trovare non resistenza, o peggio, come sostengono gli hacker, sabotaggio, ma contro programmazione, riconfigurazione di una potenza di calcolo che, lo diceva Adriano Olivetti , nel lontano 1959, “deve essere tecnologia di libertà o non è”.
Per cui il nodo gordiano che dobbiamo sciogliere riguarda il ruolo attivo, consapevole e critico di quelle che Hannah Arendt chiamava “le plebi del totalitarismo”. Incidere e separare quella molecola molesta e infernale in cui masse frustrate scaricano la loro rabbia antielitaria al seguito di super élite che le dominano e le guidano. È il perverso meccanismo che ha visto in questi decenni riversarsi da sinistra a destra voti e consensi popolari.
Ma soprattutto ha visto neutralizzarsi qualsiasi interdizione sociale al potere privato degli algoritmi che è stato contrastato solo da equivalenti e apparentemente contrari poteri statali. L’idea che a mettere la politica al primo posto possa essere un miliardario speculatore in America, o un despota nazionalista in Russia, o un tecnocrate di partito in Cina ci fa capire quale sia il paradosso che viviamo.

Questa partita oggi si sta giocando su un ring in particolare: la città metropolitana. Quella che nel lontano XV secolo Pico della Mirandola definiva “il luogo dove si conta e si racconta” e che oggi sta diventando il luogo dove si è contati e si è raccontati. Sono proprio le città le macchine che concorrono a determinare quell’accumulo di ricchezza da parte dei satrapi digitali. Ogni città, in tutto il mondo, si governa trasferendo dall’analogico al digitale, informazioni, servizi, prodotti, relazioni. Il resto è paccottiglia. Mobilità, accoglienza, sanità, formazione, assistenza, lavoro, servizi sono categorie di una ormai stucchevole e logorata idea di smart city che sta sempre più diventando il mercato più ricco del mondo: entro i prossimi cinque anni vi saranno circolati qualcosa come tremila miliardi di euro.
Questo è oggi il sistema tolemaico da scardinare per ridare senso e ruolo e credibilità alla democrazia.
Quel potere apparentemente inviolabile e irrintracciabile delle corporation digitali nelle città diventa visibile, diventa un numero di telefono, una sede, un dirigente, una responsabilità. Ed è qui che si deve articolare il tema di una reale, concreta e pragmatica democrazia della deliberazione digitale. Se il baratro da colmare, come spiegava Adorno, è quel senso di spossessamento, di alienazione, avremmo detto, di estraniazione che prende ogni cittadino medio nella morsa globalizzazione/digitalizzazione, ridare ruolo e forma ad una meccanica negoziale che veda ogni singolo individuo poter intervenire e interferire con i giganti in quanto parte di una comunità civica, territoriale, professionale, significa bucare la bolla di impotenza che produce rassegnazione e delega agli algoritmi.
Hong Kong, Santiago, Barcellona, Londra, ma anche Milano, Venezia, Genova e Napoli, sono oggi entità conflittuali su vari livelli: contro un regime, contro una sopraffazione, contro un destino, contro un malessere o per un’opportunità. Il linguaggio e gli strumenti di queste sollevazioni ci portano al controllo digitale del territorio. Ci portano a quello che Aldo Bonomi, uno dei più preveggenti analisti comunitari, descrive come il punto di impatto “fra flussi e territori”. I flussi sono guidati da algoritmi, i territori governati da comunità. E questo oggi il conflitto che può dare un volto persuasivo e coinvolgente ad una democrazia che chieda più innovazione e non più burocrazia.
Il tema è la negoziazione degli algoritmi, l’integrazione e riclassificazione della sequenza numerica che trasporta un fine, un valore un obiettivo. Una contrapposizione che deve basarsi su interessi concreti, a partire dall’accesso ai servizi, e per l’uso condiviso dei dati. Il prossimo dispiegamento del 5g nelle città sta già ponendo quest’emergenza: chi decide dove e quando e soprattutto come e perché? Chi determina le modalità e le occasioni di fruizione? Cosa si fa con il surplus di trasporto del segnale? A chi serve poter parlare punto a punto con le comunità trasversali della città? Solo a chi deve intensificare il traffico per le bollette o anche a ospedali, scuole, studi professionali, famiglie, comunità, associazioni, parrocchie, circoli, centri di ricerca?
E chi fruirà dei dati accumulati?
La domanda vale anche per Netflix o per Uber, che raccolgono milioni di cartelle personalizzate sui nostri movimenti fisici ed emotivi: chi li utilizza quei dati e chi li può sovrapporre e profilare? Solo Cambridge Analytica? Quando vediamo correre una bicicletta o una car sharing sappiamo che lascia una scia appetitosissima di dati e chi li utilizza visto che sono dati tutti pubblici, che la tariffa paga il servizio non l’anima del conducente?
Ma lo stesso vale per gli algoritmi di servizio, dalle misurazioni della produttività in fabbrica o del prestigio di un’università, o ancora dell’efficienza di un ospedale, o di una redazione: chi misura i misuratori? Quali meccanismi possono rendere trasparente e condivisibile questa caverna di Aladino?

Davvero parliamo di fantascienza?
A Londra nei giorni scorsi l’amministrazione della città ha cacciato Uber dai suoi confini perché non voleva condividere i dati accumulati in città.
A Copenaghen si è municipalizzato il mercato dei dati, mediante un City Data Exchange. Sono tutte realtà dinamiche, competitive, dedite al libero mercato e non tentate da furie ideologiche collettiviste. Sono però comunità che vogliono vincere e non solo essere usate. Così qualcosa si sta muovendo nel sindacato lungo questo crinale.
La domanda chi può negoziare a casa di un negoziatore per eccellenza ha smosso le acque. La Cgil ha messo in campo le proprie camere del lavoro, sindacati di città per eccellenza dove il lavoratore è anche cittadino, consumatore, artigiano e gestore di pubblici servizi. A Milano e Napoli si è chiesto al sindaco personalmente di aprire un tavolo per discutere di un possibile piano regolatore della connettività e delle intelligenze. Si tratta di trovare finalmente procedure e pratiche per aprire la black box degli algoritmi che già scandiscono i ritmi delle metropoli.
Ma non è solo una domanda di riappropriazione di un potere, di una libertà, è anche l’istinto di trovare un modo di stare in quel mondo con una postura da protagonista e non più da spaesato utente abbacinato dagli effetti speciali. Si sta nella rete con l’orgoglio di essere stati rete nella stagione precedente, con i consigli, i delegati, e di voler tornare ad esserlo.
Soprattutto si vuole trovare una bussola per dare un senso, per ritrovare un orientamento che dia valore e direzione a quella straordinaria energia scaturita da migliaia, milioni di persone connesse. Questa è la svolta politica. Stare un passo avanti all’avversario, diceva Di Vittorio, essere più rete, più virtuale, più leggeri di chi pensa di poter ancora usufruire del dividendo del primo della classe, di poter ancora stupire perché sa come funziona quel mondo. Leggeri come un uccello e non come una piuma, ammoniva Paul Valery.
La mossa del cavallo che le città possono realizzare è proprio questa: sintonizzarsi con la grande missione del mondo digitale, che trasforma la pesantezza in leggerezza senza estraniare o escludere, ma valorizzando ogni singolo punto del network. Le persone sono innanzitutto portatrici di soluzioni e non solo di problemi, questo è il principio del piano regolatore trasparente e democratico delle intelligenze metropolitane. Google diventa vecchio di fronte a questa ambizione.

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!