Tornare indietro è alquanto problematico, sul piano procedurale e su quello politico. Ma Joe Biden non intende condividere con the Donald una strategia sul Medio Oriente, e sull’eterno conflitto israelo-palestinese, che il candidato democratico alla Casa Bianca ritiene fallimentare. In sintesi: se Biden sarà il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America l’ambasciata in Israele rimarrebbe a Gerusalemme, ma per il resto, addio al “Piano del secolo” e ai continui “regali” politici fatti da Donald Trump all’amico “Bibi”, al secolo Benjamin Netanyahu, il primo ministro più longevo nella storia dello stato ebraico, destinato a consolidare il suo record almeno fino a settembre2021, stando al “patto della staffetta” stabilito con il suo ex sfidante Benny Gantz.
Una cosa è certa: con Biden presidente cambierebbe e di molto la politica statunitense verso Israele. Cambio non significa rivoluzione, ma neanche correttivi marginali. Prendiamo, a mo’ di esempio, la vicenda dello spostamento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme: una decisione scritta da tempo, ma che nessun presidente americano prima di The Donald aveva resa operativa con la sua firma in calce [vedi articolo dedicato alla vicenda]. Trump l’ha fatto, con l’entusiastico sostegno di Netanyahu e della destra ultranazionalista israeliana, non replicato, come sperava il tycoon di Washington e i suoi più stretti collaboratori sul Medio Oriente – a cominciare dal suo consigliere-genero Jared Kushner – nel composito universo dell’ebraismo americano.
Ora, Biden non intende riportare l’ambasciata a Tel Aviv ma al tempo stesso ha criticato la decisione di Trump definendola “miope e frivola”. Biden, parlando durante una raccolta fondi virtuale, ha sostenuto che spostare nuovamente l’ambasciata non aiuterebbe il processo di pace stagnante tra il governo israeliano e l’Autorità palestinese, che hanno combattuto per generazioni su come dividere terra e potere, in particolare Gerusalemme.

Ai donatori, Biden ha rivelato la sua intenzione, se sarà lui il vincitore delle elezioni presidenziali di novembre, di riaprire un consolato degli Stati Uniti a Gerusalemme Est per coinvolgere i leader palestinesi in un negoziato di pace fondato, e qui sta la grande rottura con la politica dell’amministrazione Trump, sulla soluzione “a due Stati”, che è stata a lungo, come rimarca il quotidiano progressista di Tel Aviv Haaretz, la posizione ufficiale degli Stati Uniti verso Israele e i palestinesi.
Sono stato un orgoglioso sostenitore di uno stato ebraico israeliano sicuro e democratico per tutta la mia vita
ha detto Biden. Ma ha aggiunto:
La mia amministrazione solleciterà entrambe le parti a prendere provvedimenti per mantenere viva la prospettiva di una soluzione a due stati
Ogni decisione unilaterale presa in questo senso – ha concluso il leader dem – finirebbe per rendere meno probabile un accordo e per questo andrebbe respinta, compresi eventuali piani di “annessione”.
Interpellato da AsiaNews Jeremy Milgrom, rabbino israeliano e membro dell’ong Rabbis for Human Rights, ha sottolineato che
il partito democratico ha due anime differenti alla propria base, una più conservatrice e l’altra progressista. Bisogna vedere quale delle due avrà più influenza
sia in fase di campagna elettorale che in caso di vittoria. Tuttavia, osserva Milgrom
in questo momento non è scontato il sostegno del fronte più riformista e progressista
per Biden. L’affermazione sull’ambasciata che non tornerà a Tel Aviv, sottolinea il rabbino, evidenzia che il candidato dem “non vuole perdere i voti ebraici”, ma “la questione dell’ambasciata a Gerusalemme” non è certo il punto centrale della discussione. Altri sono i temi su cui si giocherà la partita, anche sul fronte mediorientale.
Il Congresso ha autorizzato il trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme nel 1995 – con Biden che votò a favore come senatore del Delaware – ma una serie di presidenti di entrambi i principali partiti ha ritardato il passaggio, stabilendo le condizioni come parte dei negoziati di pace in corso.
Un passo indietro nel tempo. Marzo 2010. Biden è vice presidente degli Stati Uniti, con Barack Obama alla Casa Bianca, ed è impegnato nell’ennesima missione in Medio Oriente. Tappa centrale, Israele. Scriveva per Avvenire Barbara Uglietti:
Quando l’altro ieri si è ritrovato a Gerusalemme a incassare l’offesa sugli insediamenti (il via libera del governo israeliano a 1.600 nuove abitazioni nella parte araba della Città Santa annunciato proprio il giorno del suo arrivo), [Biden] ha reagito d’istinto, pensando di mandare a monte la cena con il premier israeliano Benjamin Netanyahu e le buone intenzioni con cui era partito. Poi si è limitato a contenere la protesta in un’ora e mezza di ritardo. Ma di certo il clima a tavola non deve essere stato dei più distesi. Quando ieri è arrivato in Cisgiordania per i colloqui con la parte palestinese, teneva stretto in tasca un documento insolitamente duro nei confronti dell’alleato israeliano (“Condanno la decisione del governo di procedere con la pianificazione di nuove unità abitative. La sostanza e il momento scelto per l’annuncio sono esattamente il tipo di atto che mina la fiducia di cui ora c’è bisogno”), rafforzato dalle condanne dell’Onu (Ban Ki-moon ha ribadito che “gli insediamenti sono una pratica illegale per la legge internazionale”) e dell’Unione Europea (il “ministro degli Esteri” Catherine Ashton si è “associata” con un messaggio inequivocabile alla condanna dell’Onu). Probabilmente Biden ha respirato aria migliore, a Ramallah. Incontrando il presidente dell’Anp Abu Mazen e il premier Salam Fayyad ha di nuovo condannato le decisioni israeliane sugli insediamenti e ribadito l’impegno statunitense verso l’obiettivo di uno Stato palestinese, governabile e dotato di continuità territoriale.
Continuità territoriale. Un concetto politico prima che geografico. Un concetto che confligge radicalmente con il mini-bantustan palestinese concepito dagli ideatori del “Piano del secolo”. Qui, la rottura è totale.

D’altro canto, Biden è sempre stato contrario a passi unilaterali nell’ambito del processo di pace in Medio Oriente, compresa l’annessione delle colonie in Cisgiordania da parte d’Israele. A ribadirlo è stato il suo consigliere per la politica estera Tony Blinken, specificando però che questo “non andrà a pregiudicare quello che potremo o meno fare nell’ambito di un’amministrazione Biden” perché molto potrebbe cambiare per allora.
L’annessione delle colonie in Cisgiordania è stata inserita nell’accordo per un governo di unità nazionale firmato la settimana scorsa da Benjamin Netanyahu e Benny Gantz: in base all’intesa, il leader del Likud potrà portare avanti il progetto dal primo luglio del prossimo anno, previo sostegno di Washington. Blinken, durante un seminario online organizzato dal Jewish Democratic Council of America, ha poi ribadito che Biden, se eletto presidente, non riporterà l’ambasciata Usa da Gerusalemme a Tel Aviv perché “non avrebbe senso né da un punto di vista pratico né politico”.
Allo stesso webinar, il senatore del Delaware Chris Coons, parlando come sostenitore della campagna di Biden, ha espresso la speranza che il leader del partito Blu e Bianco Benny Gantz e il suo vice, Gabi Ashkenazi – entrambi ex capi dello stato maggiore dell’Idf (le forze armate israeliane) – avrebbero usato la loro leva finanziaria nell’imminente nuovo governo di unità per impedire qualsiasi applicazione della sovranità sulla Cisgiordania.
La mia speranza sarebbe che Ashkenazi come ministro degli Esteri e Gantz come ministro della Difesa – in quelle che saranno le deliberazioni interne – data la loro profonda esperienza nell’Idf e date le conseguenze sulla sicurezza di una mossa improvvisa, metterebbero in guardia Bibi [Netanyahu] contro alcuni passi così significativi
ha aggiunto Coons.
Qualche giorno prima, il segretario di stato americano, Mike Pompeo, aveva sottolineato come la decisione sulle annessioni ricada “in ultima istanza” su Israele e a ha aggiunto che gli Stati Uniti “stanno lavorando strettamente” con il governo dello stato ebraico per “condividere in privato il nostro punto di vista”.
Le parole di Pompeo hanno ricevuto il plauso dei neocon e dei repubblicani, almeno di quelli che si sono espressi, mentre hanno sollevato polemiche tra i candidati democratici alla Casa Bianca. Apertamente contrari, perché di fatto legittima l’annessione della Cisgiordania seppellendo l’idea di uno stato palestinese (la cosiddetta “soluzione dei due Stati”), Joe Biden – alla fine vincitore della corsa alla nomination, Elizabeh Warren e Bernie Sanders.
A riferirlo è Amor Tibon su Haaretz, il quale dettaglia anche la spaccatura in seno alla comunità ebraica statunitense. Ad applaudire la decisione, infatti, la Orthodox Union e la Republican Jewish Coalition, a condannarla l’Union for Reform Judaism, l’Americans for Peace Now e J-Street. Una divisione che riflette anche in questo caso la scelta tra i “due stati” e quella di “un solo stato” (Israele). Tibon registra come l’Aipac, la più influente organizzazione ebraica americana, sia rimasta neutrale.
L’ex ambasciatore americano in Israele, Martin Indyk afferma che Trump si schiererà con l’annessione per soddisfare la destra americana cristiana:
Coronavirus o no… questo è molto chiaro: Trump darà il via libera all’annessione per assicurarsi la base evangelica alle elezioni.

Indyk esclude la Florida dal gioco di Trump: gli elettori ebrei potrebbero essere cruciali in quello stato altalenante. L’opinione diffusa è che questo accordo sarà un test per le organizzazioni liberali sioniste negli Stati Uniti, se si opporranno all’annessione ora e coinvolgeranno i politici democratici contro di essa.
Si noti che la scorsa settimana tale iniziativa ha portato undici deputati a scrivere una lettera di opposizione all’annessione. Non esattamente una marea. Ma J-Street, un gruppo liberale statunitense filoisraeliano per la pace e la democrazia, ha recentemente appoggiato Joe Biden che ha accolto con favore il sostegno. È certo che prenderà posizione contro l’annessione. Il candidato dem questa posizione l’ha presa. E non è cosa da poco.

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