La vicenda dello spostamento dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme ha una lunga storia. Il recente articolo di Umberto De Giovannangeli a proposito della posizione di Joe Biden sul tema è utile per ricostruire un processo che ha trovato in Trump il realizzatore finale. Nel 2017, infatti, Donald Trump annuncia che gli Stati Uniti riconosceranno Gerusalemme come capitale d’Israele. È una conferma di una promessa già fatta in campagna elettorale. A sostegno della decisione, l’allora neo-presidente aveva citato il Jerusalem Embassy Act, una legge approvata nel 1995 dal Congresso, con una maggioranza bipartisan (93-5 al Senato e 374-37 alla Camera a favore). Secondo Trump poi l’impegno sarebbe stato riconfermato dal Senato qualche mese prima della sua dichiarazione.
Il Jerusalem Embassy Act affermava infatti che l’ambasciata avrebbe dovuto essere spostata da Tel Aviv a Gerusalemme entro il 1999. Tuttavia stabiliva anche che la decisione potesse essere rinviata di sei mesi se il presidente lo ritenesse opportuno per ragioni di sicurezza nazionale. Considerati quindi i rischi di destabilizzazione della regione, tutti presidenti – Clinton, Bush e Obama – ogni sei mesi avevano firmato una deroga alla legge. Tutti presidenti che peraltro avevano sostenuto l’idea di Gerusalemme capitale d’Israele durante la campagna elettorale.

La storia di quella legge è molto complessa. Ma vale la pena di ricostruirla. Discussioni sul tema infatti ve ne sono sempre state ma i presidenti avevano evitato di affrontare il nodo, molto difficile da sciogliere. Si tratta di una vicenda complicata perché si mescolano interessi politici personali con la geopolitica e i calendari elettorali.
- Anni Ottanta. Nel 1980 il parlamento israeliano – maggioranza a guida Likud – approva la Jerusalem Law che stabiliva Gerusalemme unita come capitale d’Israele. Inizia quindi un’operazione di lobbying nei confronti degli Stati Uniti da parte del govenro israeliano e da latre organizzazioni. Nel 1982, Reagan però è impegnato nel suo piano di pace tra Israele, Giordania e palestinesi (il cosiddetto “Reagan plan”). Il “piano” prevede il rinvio di qualsiasi decisione sullo status di Gerusalemme. L’operazione di lobbying quindi non va a buon fine. Ma funziona con i membri del Congresso dove viene presentato un disegno di legge nel 1984 per spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Il presidente s’oppone e ne evita l’approvazione, poiché avrebbe lanciato un messaggio “partigiano”, mentre erano in corso tentativi di negoziato. Haaretz racconta che per il presidente repubblicano lo spostamento “avrebbe seriamente danneggiato la capacità degli Stati Uniti di giocare un ruolo efficace nel processo di pace nel Medio Oriente”. Il Congresso quindi si limita a passare una serie di risoluzioni non vincolanti a sostegno dell’idea.
- Anni Novanta. Nel 1992, durante le primarie democratiche, Bill Clinton dichiara il proprio sostegno al riconoscimento di Gerusalemme come capitale, una proposta che avrebbe modificato notevolmente la politica americana fino ad allora seguita. Clinton attacca lo stesso presidente Bush sul tema che ritorna così al centro dell’attenzione del dibattito politico statunitense. Una volta arrivato alla Casa Bianca, Clinton però decide di non procedere con questa promessa. Come raccontato da Martin Indyk, ex ambasciatore americano in Israele e consigliere dell’allora presidente democratico, in quel momento erano in corso a Madrid i negoziati per il processo di pace tra israeliani e palestinesi, che lo spostamento dell’ambasciata e il riconoscimento di Gerusalemme come capitale avrebbero sicuramente danneggiato. I negoziati a Madrid portano agli accordi di Oslo nel 1993, sotto i buoni auspici di Clinton. In base agli accordi, la questione di Gerusalemme non avrebbe dovuto essere discussa prima di maggio 1996 (mese di elezioni in Israele). E che comunque non vi era necessità di risolvere il problema fino a maggio 1999. Ovviamente anche se il tema non fa parte di negoziazioni è ben presente nel dibattito politico israeliano e palestinese. Sia i governi israeliani dell’epoca, sia l’Olp di Arafat devono fronteggiare le critiche interne sul tema.
- È in questo periodo che l’intreccio tra vicende politico-elettorali americane e israeliane diventa più forte. Nel 1994, infatti, la cosiddetta “Republican Revolution” di Newt Gingrich dà ai repubblicani il controllo di Camera e Senato per la prima volta dopo quarant’anni (i democratici controllavano la Camera dal 1954), grazie tra l’altro al voto evangelico. Clinton si trovò quindi in una situazione di divided government, cioè con un partito che controlla l’esecutivo, l’altro il legislativo. È quindi un presidente indebolito – per quanto in possesso del diritto di veto – che si avvia verso un biennio elettorale per essere riconfermato alla Casa Bianca. Nuovo leader della maggioranza repubblicana al Senato è Bob Dole, che di lì a poco si candiderà alla primarie repubblicane e diventerà il candidato del Gop alle elezioni presidenziali del 1996.
- L’intenzione della nuova maggioranza repubblicana è di fare piazza pulita delle politiche di Clinton. Nel gioco politico ci finisce anche la questione israelo-palestinese. Gingrich, nuovo Speaker della Camera, e Dole presentano infatti un progetto di legge – quello che diverrà il Jerusalem Embassy Act – per chiedere all’amministrazione di spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme. Se ciò non fosse accaduto, il disegno di legge prevedeva il dimezzamento dei finanziamenti già assegnati al dipartimento di stato per altri progetti di costruzione all’estero. Il dibattito avviene poco dopo gli accordi di Taba – noti come accordi di Oslo II -, che stabiliscono l’Autorità nazionale palestinese in Cisgiordania e nella striscia di Gaza. L’amministrazione Clinton non è favorevole al progetto di legge come si racconta su Foreign Policy. Nemmeno il governo israeliano di Yitzhak Rabin (assassinato qualche mese dopo) è a favore. Secondo il New York Times dell’epoca il malcontento israeliano per la proposta repubblicana è molto alto. Il governo Rabin inoltre pensava che dietro la proposta repubblicana ci fosse la mano del Likud, in vista delle elezioni legislative del 1996 (le prime vinte da Netanyahu). L’allora ministro della salute Ephraim Sneh, vicino a Rabin, dichiarava che politici del Likud si stavano immischiando nella politica americana nel tentativo di rallentare il processo di pace, per ottenere da Washington “quello che il voto in Israele non è riuscito a dare loro”. Altri membri del governo israeliano cercavano di tenere Israele fuori dal dibattito americano. Per l’allora ministro degli esteri Shimon Peres “non dobbiamo essere coinvolti”, “ci sono cose più importanti” a detta dell’allora ministro delle finanze Avraham Shohat, mentre per il ministro delle comunicazioni Shulamit Aloni si trattava di una provocazione. Il New York Times riporta anche le preoccupazioni per le conseguenze elettorali della posizione americana per Israele. Infatti l’atto del Congresso avrebbe portato il tema al centro della lotta politica israeliana e Rabin avrebbe dovuto affrontare la questione, indebolendolo di fronte agli alleati di governo arabo-israeliani e rischiando di perdere le elezioni del 1996 (col conseguente fallimento dei negoziati di pace).
- Dole non rappresenta nemmeno uno dei maggiori sostenitori della causa israeliana al Congresso. Durante un viaggio in Medio Oriente nel 1990, il senatore aveva definito Israele come un “bambino viziato” e aveva proposto una riduzione del cinque per cento degli aiuti a Israele. In un’altra dichiarazione affermava che Israele aveva stabilito il controllo su Gerusalemme Est “con la forza”. Nello stesso anno, dopo aver firmato una risoluzione che dichiarava Gerusalemme capitale d’Israele, chiese che la sua firma fosse ritirata poiché un tale atto avrebbe aiutato gli “Arabi che cercavano di evitare il processo di pace”. Dole poi cambia idea alla ricerca di qualche vantaggio politico in vista della sfida delle primarie repubblicane. Ovviamente Clinton non può opporsi a una proposta che egli stesso aveva fatto nel passato. Si riesce però ad aggiungere la possibilità per il presidente di rinviare la decisione qualora non vi siano le condizioni di sicurezza nazionale per procedere. Un modo, forse ci azzardiamo a dire, che soddisfaceva entrambe le parti: si tutelava sicurezza nazionale e consentiva a repubblicani e democratici di rivendicare qualche cosa di fronte all’elettorato.
- Il disegno di legge divide tra l’altro anche il mondo ebraico statunitense. Molte organizzazioni iniziano a competere per influenzare in un senso o nell’altro l’esito del voto. L’American Israel Public Affairs Committee ad esempio sostiene il progetto di legge. Altri gruppi sostengono la posizione del governo Rabin, suggerendo di rallentare il processo di approvazione della legge, per non far deragliare i negoziati di pace. La legge viene comunque approvata, con questa clausola che permette al presidente di rinviare la decisione, previa informazione del Congresso, se vi siano motivazioni di sicurezza nazionale.
- Sulla base di questa clausola, anche George W. Bush per otto anni rinvia lo spostamento dell’ambasciata. Nella loro piattaforma del 2000, i repubblicani sottolineavano il loro impegno per spostare l’ambasciata: “immediatamente dopo l’entrata in carica, il prossimo presidente repubblicano inizierà il processo di trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv nella capitale di Israele, Gerusalemme”. In realtà non accade nulla.
- La stessa cosa accade con Barack Obama. Nel 2008 i democratici, pur parlando di Gerusalemme come capitale d’Israele, affermano che il suo status finale deve essere oggetto di negoziazione tra le parti.

A sostegno della propria posizione, Trump aveva anche affermato che la legge era stata poi riconfermata da un voto unanime del senato sei mesi prima della sua dichiarazione del 2017. Si trattava in realtà di una risoluzione non vincolante per commemorare il cinquantesimo anniversario della riunificazione di Gerusalemme durante al guerra dei sei giorni nel 1967. Una clausola della risoluzione faceva specificatamente riferimento alla legge del 1995.
La risoluzione è in effetti passata con un voto unanime. Ma la stessa risoluzione conteneva anche un’altra clausola:
Il Senato ribadisce sulla base di una politica bipartisan di lunga data del governo degli Stati Uniti, lo status permanente di Gerusalemme rimane una questione da decidere tra le parti attraverso negoziati sullo status finale verso una soluzione a due stati.

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