Santa Sofia. Erdoğan sottovaluta le “divisioni” del papa

La decisione del presidente turco di trasformare la basilica-moschea-museo in luogo di culto islamico è rivolta verso diversi obiettivi, politici e geopolitici, ma sottovaluta incredibilmente le conseguenze più rilevanti sul piano delle relazioni con la cristianità.
UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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È stato deciso che Santa Sofia “sarà posta sotto l’amministrazione della Diyanet”, l’autorità statale per gli affari religiosi, che gestisce le moschee della Turchia, “e sarà riaperta alla preghiera” islamica, si legge nel decreto, firmato da Recep Tayyp Erdoğan il 10 luglio scorso. La decisione è già stata pubblicata sulla Gazzetta ufficiale. Un azzardo, quello di Erdogan. Un azzardo calcolato, la cui posta in gioco è altissima e plurima: la supremazia ottomana nel mondo sunnita a scapito dell’Arabia Saudita e dell’Egitto; la definitiva trasformazione della Turchia in una potenza che guarda a Oriente, e che, dalla Libia alla Siria, dalla Palestina al continente africano intende imporsi come player mondiale che sfida le grandi potenze globali: Cina (in particolare in Africa), la Russia (nel Mediterraneo), gli Stati Uniti.

Al tempo stesso, “l’operazione Santa Sofia” ha una forte valenza interna, politica e identitaria. Rappresenta un passaggio importante nella trasformazione di un paese plurale, multietnico e multiculturale qual è stata la Turchia per secoli in una sorta “Erdoğanistan” culturalmente monolitico, con l’affermarsi forzoso di un’identità islamo-nazionalista. Ma la vicenda di Santa Sofia è anche una spregiudicata operazione di distrazione di massa.

Il momento scelto è tutt’altro che casuale: sul piano economico-finanziario la Turchia, nonostante l’iniezione miliardaria di capitali da parte dell’amico Qatar, è in grave crisi recessiva, con la lira turca in caduta libera (a giugno la lira turca è arrivata a scambiare fino 7,49 contro il dollaro, toccando il nuovo minimo storico). E con tutti i maggiori differenziali economici – disoccupazione, inflazione, Pil, produzione industriale – da allarme rosso, un’economia esposta solo quest’anno verso l’estero per pagamenti intorno ai 170 miliardi.

Erdoğan sa bene che quella che lui ha imboccato è una via senza ritorno, o sbanca il tavolo oppure rischia di essere spazzato via, come è successo ad altri rais, autocrati, “sultani” prima di lui, di certo i suoi competitor non assisteranno passivamente alle sue performance. 

Non lo farà la Cina che sta sempre più penetrando attraverso “la diplomazia degli affari” in Africa e sostenendo politicamente ed economicamente la Grecia, nel ricco (di risorse di petrolio e gas) Mediterraneo Orientale. La “guerra delle trivellazioni” è già iniziata. Da Atene si susseguono dichiarazioni allarmate e la richiesta pressante all’Europa di fare quadrato contro i progetti turchi. Ma come insegna la storia di Cipro, per il nazionalismo turco l’odiata Grecia è il nemico ideale contro cui fare fronte.

Altre sono le insidie per Erdoğan e il suo disegno neo imperiale. Non starà di certo a guardare la Russia di Vladimir Putin: in Siria, l’asse Mosca-Ankara non è più solida come un tempo, e a “Zar Vladimir” non piace per niente la realizzazione di un “protettorato ottomano” nel nord della Siria. E un conflitto di interessi si sta manifestando sempre più anche in Libia, dove la Russia, assieme all’Egitto e agli Emirati Arabi Uniti sostengono il generale di Bengasi Khalifa Haftar, mentre Erdoğan appoggia, con droni, consiglieri militari e miliziani spostati dal fronte siriano il governo di Fayez al-Sarraj. Anche qui, come nel Mediterraneo orientale la posta in gioco è, insieme, geopolitica ed economica. La Turchia mira ai pozzi petroliferi in Tripolitania e ad avere una fetta consistente della “torta” miliardaria della ricostruzione. 

In questo scontro globale vale tutto, anche “l’arma” della religione. Santa Sofia rappresenta uno dei luoghi di culto più sentiti dalla cristianità, in particolare da quella Chiesa ortodossa legata a filo doppio con la Russia di Putin, che fa della difesa della cristianità ortodossa un pilastro fondamentale del suo neo-panrussismo. Ed è stato lo stesso leader russo a far sapere, con una telefonata a Erdoğan, resa nota dal Cremlino, che la popolazione russa non ha gradito la riconversione.

Ayasofya (1912) [Underwood & Underwood – ABD Kongre Ktp.Fotoğraf Kataloğu]

Quanto agli Usa, Donald Trump non ha nascosto la sua ammirazione per l’omologo turco, per la sua “democratura”: senza il via libera di Washington, Ankara avrebbe avuto più problemi nell’invadere il Rojava e portare avanti la pulizia etnica dei curdi siriani. D’altro canto però, The Donald non può voltare le spalle ai suoi più fidati alleati mediorientali: l’Arabia Saudita e Israele.

Per Riyadh e Tel Aviv l’espansionismo turco rappresenta una minaccia che si avvicina a quella della mezzaluna rossa iraniana. C’è poi il problema-Nato: la Turchia ha il secondo esercito, dopo quello americano, più grande nell’Alleanza atlantica, ma Erdogan si tiene le mani completamente libere, compra sistemi anti missilistici dalla Russia e agisce come se di quell’Alleanza non ne facesse parte. Ciò che emerge con sempre maggiore evidenza è che i futuri equilibri e assetti del Medio Oriente dipendono dal confronto-scontro tra due potenze non arabe: la Turchia e l’Iran. Ed è in questa chiave che Erdoğan si è fatto paladino, tutt’altro che disinteressato, della “causa palestinese”: prima tuonando contro la Gerusalemme “ebraicizzata” e oggi contro il piano Netanyahu di annessioni di parti della Cisgiordania.

Politica e religione si intrecciano indissolubilmente: già l’anno scorso, Erdoğan aveva sostenuto che la riconversione di Santa Sofia in moschea avrebbe rappresentato una risposta alla decisione del presidente Usa di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele.

“Qualsiasi modifica” relativa a un sito Patrimonio mondiale dell’umanità “richiede una notifica all’Unesco da parte dello Stato coinvolto e poi, se necessario, un esame del Comitato del Patrimonio mondiale”, ricordava nei giorni scorsi l’Unesco insistendo sul “forte valore simbolico, storico e universale” del sito. 

Ma di questi inviti e appelli, il Sultano ha fatto e farà orecchie da mercante. Ogni suo atto politico, interno ed esterno, ha sempre avuto come unico obiettivo il realizzarsi di un disegno imperiale neo-ottomano. Per affermarlo ha riempito le carceri di decine e decine di migliaia di oppositori, ha occupato una parte della Siria, non facendosi scrupolo di utilizzare per il lavoro più sporco miliziani jihadisti reclutati tra le fila di al-Qaeda, e ora allunga le mani sulla Libia e le sue ricchezze petrolifere. D’altro canto, quello di Erdoğan, concordano gli analisti indipendenti turchi, è anche il tentativo di una rivincita interna.

L’anno scorso il suo Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) ha perso – per due volte, dopo che le elezioni contestate dallo stesso presidente erano state ripetute – alle amministrative di Istanbul, città di cui Erdoğan per altro fu sindaco negli anni Novanta. Riconvertire Santa Sofia in moschea è considerato dagli oppositori del presidente come una mossa per riprendere il controllo, anche solo simbolicamente, della propria città. L’ex ministro della Cultura e del Turismo Ertuğrul Günay, che era stato al governo quando Erdoğan era primo ministro, ha detto in un’intervista televisiva che il presidente sta facendo sì che si parli di Santa Sofia per dimostrare di essere ancora padrone di Istanbul nonostante la sconfitta elettorale.

Nell’immediato, la mossa del presidente non fa che fotografare la spaccatura delle “due Turchie”, che non fa che consolidarsi. Secondo un sondaggio MetroPoll, il 46,3 per cento della popolazione è favorevole alla riconversione di Santa Sofia in moschea, mentre il 43,8 per cento dei turchi avrebbe preferito fosse rimasta un museo.

Tra i contraccolpi presi in considerazione dal presidente turco, che avventato non è mai, anche nelle sue ormai numerose “provocazioni”, quelli in campo politico e geopolitico hanno probabilmente messo in secondo piano quello più insidioso, il contraccolpo proveniente dai capi religiosi della cristianità, il papa in primis. Tra non molto, probabilmente, Erdoğan inizierà a rendersi conto di quante “divisioni” ha il papa e hanno gli altri leader della cristianità, e delle forze che sono in grado di scatenargli contro.

Il silenzio tenuto per giorni dal Vaticano poteva in effetti far pensare che la decisione non avesse urtato il papa. L’Osservatore Romano s’era limitato a riportare la notizia in prima pagina, senza commenti. E la dichiarazione del vice ministro degli esteri russo, Sergey Vershinin, che aveva definito una “questione interna” alla Turchia la riconversione di Santa Sofia, poteva illudere Ankara che a Mosca la decisione fosse stata digerita. Ma ecco la ferma e dura reazione delle due guide più importanti dell’ortodossia, Kirill di Mosca e Bartolomeo di Costantinopoli, di nuovo unite di fronte alla decisione turca, dopo la frattura tra loro provocata dalla scelta della chiesa ucraina di rendersi autonoma rispetto alla russa. Quanto accaduto, ha ammonito Bartolomeo, “spingerà milioni di cristiani in tutto il mondo contro l’islam”, “sarà causa di rottura tra questi due mondi”. Santa Sofia, ha sottolineato Kirill, “è uno dei più grandi monumenti della cultura cristiana, particolarmente caro alla Chiesa russa“, e “qualsiasi tentativo di umiliare o di calpestare l’eredità spirituale millenaria della Chiesa di Costantinopoli è accolta dal popolo russo, allora come oggi, con indignazione e amarezza”. Come poteva Putin restare in silenzio? Come poteva la Santa Sede non reagire?

Ed ecco il papa, che s’affaccia dal palazzo apostolico per l’Angelus, domenica, e parlando a braccio, arriva alla vicenda: “Il pensiero va a Istanbul, penso a Santa Sofia. Sono molto addolorato”.

Bergoglio, che aveva aperto una “linea di credito” a Erdoğan tenendo soprattutto conto del dramma dei profughi, a decine di migliaia presenti in Turchia, e attenendosi alla sua visione di dialogo interreligioso, la mette dunque su un piano personale. Come a dire che, per la chiesa cattolica, la vicenda è all’opposto di quanto fa dire Erdoğan al suo ministro degli esteri Mevlüt Çavuşoğlu: le affermazioni su Santa Sofia che giungono dall’estero “costituiscono un’interferenza rispetto alla sovranità della Turchia”. Per la cristianità, per chi ha a cuore un civile e costruttivo rispetto interreligioso, è vero il contrario.

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Santa Sofia. Erdoğan sottovaluta le “divisioni” del papa ultima modifica: 2020-07-13T18:56:35+02:00 da UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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