Me lo ha fatto notare un’amica di fronte al mio mugugno per dover passare quasi un mese tappato in casa. Mi ha detto a brutto muso:
Ma di che ti lamenti, resti a casa e basta! Tu hai dvd, cd, libri, piattaforme internet varie da cui attingere passatempi, finanche la parabolica per ricevere la tv cubana. Non pensi mai a chi ogni mattina deve andare sul posto di lavoro rischiando il contagio, forse la vita. E per giunta spesso in cassa integrazione.
Ho subito così il colpo da ko, un uppercut al mento che ha fatto barcollare ogni mio sentimento di egoismo individuale. È vero, al massimo ci occupiamo della salute di chi assicura il funzionamento dei supermercati alimentari. Agli altri che fanno andare avanti, seppure a singhiozzo, l’economia non pensiamo mai. La contraddizione tra salute ed economia si personifica solo quando qualcuno ce la fa notare. Altrimenti, la diamo per scontata.
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Quasi tutta l’Italia è in “zona rossa”, fino a Pasqua e Pasquetta incluse. Prendetevi la briga di leggere le norme che regolano questa disposizione del governo. Mi limito a citarne i paragrafi principali: scuola e università chiuse, visite a parenti e amici, deroga per Pasqua e seconde case, separati e divorziati che devono raggiungere i figli, funzioni religiose, attività sportiva, parchi pubblici, assistenza a handicappati, smart working, cinema e teatri chiusi. Un buco grande come un palazzo riguarda proprio fabbriche, operai e quegli impiegati che non possono usufruire dello smart working.
Le fabbriche non chiudono, neppure in periodo di lockdown. L’ultimo rapporto annuale dell’Inps fornisce dati nel settore manifatturiero: il contagio dei lavoratori sarebbe basso, si legge (quanto, è più difficile saperlo). Molte industrie rimangono aperte anche in virtù della scelta discutibile di lasciare ai prefetti la valutazione delle richieste unilaterali delle imprese in merito alla riapertura di attività che a loro parere “sono funzionali ad assicurare la continuità delle filiere”. Decisivi per questa sorta di deregulation anche i protocolli sottoscritti da sindacati e imprese nelle singole aziende che hanno regolato, e a tutt’oggi regolano, lo svolgimento delle attività lavorative per garantire allo stesso tempo continuità nella produzione e sicurezza dei lavoratori. Per la verità, la voce grossa dei sindacati non si è ascoltata e il rispetto dei protocolli di sicurezza varia da fabbrica a fabbrica: è un po’ una giungla che dipende dalla forza dei sindacati e dall’indole degli imprenditori.

L’elenco delle attività esonerate dalle restrizioni è lungo. Ne citiamo alcune: coltivazioni agricole e produzione di prodotti animali, pesca e acquacoltura, estrazione di petrolio greggio e di gas naturale, industrie alimentari, industria delle bevande, fabbricazione di altri articoli tessili tecnici e industriali, fabbricazione articoli di abbigliamento, fabbricazione di prodotti, fabbricazione di prodotti farmaceutici di base e di preparati farmaceutici, fabbricazione di apparecchi per irradiazione, apparecchiature medicali ed elettroterapeutiche, fabbricazione di strumenti e forniture mediche e dentistiche, commercio all’ingrosso di prodotti farmaceutici, eccetera eccetera. Le attività individuali e collettive esonerate, quindi, sono molteplici e fanno parte di quella vita minuta che si dice non si possa fermare nemmeno di fronte al Covid.

Sono inoltre 13 i punti che regolano intanto il “protocollo di intesa” siglato un anno fa tra governo, aziende e sindacati in materia di salute e sicurezza: obbligo di rimanere al proprio domicilio in presenza di febbre (oltre 37,5) o altri sintomi influenzali; controlli all’ingresso; limitare i contatti con i fornitori esterni (si devono individuare procedure di ingresso, transito e uscita, mediante modalità, percorsi e tempistiche predefinite, al fine di ridurre le occasioni di contatto con il personale, va ridotto anche l’accesso ai visitatori); pulizia e sanificazione (l’azienda assicura la pulizia giornaliera e la sanificazione periodica dei locali, degli ambienti, delle postazioni di lavoro); igiene delle mani; mascherine e guanti (qualora il lavoro imponga una distanza interpersonale minore di un metro e non siano possibili altre soluzioni organizzative è necessario l’uso delle mascherine e di altri dispositivi di protezione); spazi comuni con accessi contingentati (mense, spogliatoi, aree fumatori); possibile chiusura dei reparti non necessari e smart working; rimodulazione dei livelli produttivi e dei turni; ammortizzatori sociali e ferie; stop trasferte e riunioni; orari di ingresso e di uscita scaglionati. Nel caso, infine, in cui un lavoratore presente in azienda sviluppi febbre e sintomi di infezione respiratoria lo si deve dichiarare immediatamente all’ufficio del personale in modo che si possa procedere al suo isolamento e a quello di altri che abbiano avuto contatti con il soggetto in questione.
Un anno fa si decisero queste misure. Ma un anno dopo perché non si pensa a un piano di vaccinazione pianificata per categorie di aziende e di rischio? La voce dei sindacati è troppo flebile.

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