Guerra in Libano? C’è solo da chiedersi quando. I rischi per l’Italia

Il Paese dei cedri fa i conti con un caos politico che appare irrisolvibile, tassello, cruciale, di uno scontro di potenza che vede contrapposti Arabia Saudita e Iran. Una crisi esplosiva che ci riguarda da vicino. L’Italia è impegnata nella missione Unifil 2. Una missione recentemente contestata da Israele e dalla nuova amministrazione Usa
UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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La domanda da porsi, ormai, non è “se” ma “quando” sarà guerra. E undici anni dopo, il teatro della resa dei conti sarà di nuovo il Libano. Il Paese dei cedri fa i conti con un caos politico che appare irrisolvibile. E la ragione principale sta nel quadro geopolitico nel quale il caos libanese s’innesta diventando un tassello, cruciale, di uno scontro di potenza che vede contrapposti Arabia Saudita e Iran.

Riyadh ha accusato apertamente il governo libanese di aver dichiarato guerra al Regno Saud attraverso Hezbollah, il Partito di Dio sciita guidato da Hassan Nasrallah. Non sono più fonti ufficiose, anonime, ma una dichiarazione del ministro degli esteri saudita, Thamer al-Sabhan:

“Siamo di fronte a una dichiarazione di guerra contro l’Arabia Saudita”, voluta, secondo il ministro saudita, da Hezbollah. In una recente intervista ad Al Arabiya, Sabhan ha affermato che Hezbollah sta pianificando “attacchi terroristici” contro l’Arabia Saudita. “I libanesi – aggiunge – devono scegliere tra la pace o il cedimento a Hezbollah”. “Il Libano è diviso in due campi simili – rimarca in una intervista ad al Jazeera, l’analista politico Khaldoun El Sharif -. Uno è pro-Iran e l’altro è pro-saudita. E oggi come poche volte in passato gli interessi regionali di Teheran e Riyadh sono inconciliabili”.

Di certo, il fatto che Saad Hariri abbia scelto di annunciare le sue dimissioni da premier a Riyadh e non a Beirut, è indicativo di due cambiamenti radicali, concordano gli analisti politici libanesi: il primo, è di politica interna. Scegliendo Riyadh, Hariri ha voluto far intendere agli altri leader sunniti libanesi che resta lui il principale, se non l’unico referente della Casa Saud e non solo di essa (oggi l’ex premier è atteso ad Abu Dhabi).

Hezbollah

L’altro cambiamento riguarda l’agenda saudita anche alla luce del recente “terremoto” politico interno che ha portato all’arresto di ex ministri, dignitari di corte, iper miliardari. Rileva in proposito Sandra Noujem, analista di punta del quotidiano di Beirut L’Orient Le-Jour :

Il nuovo potere incarnato dal principe ereditario Mohammed ben Salman, ha rotto con la propensione dei suoi predecessori alla ricerca di compromessi. Il nuovo potere saudita – più pragmatico e più aggressivo – non può tralasciare il Libano, o avallare compromessi che rafforzano l’egemonia iraniana. Una egemonia – prosegue Noujem – che porta con sé una normalizzazione forzata con Damasco.

Il fronte sunnita anti-iraniano non accetta il consolidamento di una direttrice sciita Baghdad-Damasco-Beirut, tanto più ora che, con il contributo determinante degli hezbollah e dei pasdaran iraniani, l’alauita Bashar al-Assad ha riconquistato il predominio su larga parte del territorio siriano. Il Libano diviene dunque un nuovo fronte di battaglia tra sauditi e iraniani. Come lo è sempre più lo Yemen.

Il conflitto apertosi con le dimissioni di Hariri non va letto solo con la chiave d’interpretazione sunniti versus sciiti. C’è anche questo aspetto, certamente, ma le alleanze che stanno sempre più prendendo corpo indicano che alla base c’è, anzitutto, un disegno di potenza che divide Riyadh da Teheran, gli arabi dai “persiani”. Nel frattempo, Hariri ha incassato il sostegno dei Paesi del Golfo e si prepara a ricevere quello, non meno importante, del Paese sunnita militarmente più forte: l’Egitto del generale-presidente Abdel Fattah al-Sisi. E, cosa non meno pregnante, l’ex premier sa che dietro la forzatura saudita c’è il sostegno degli Usa.

Abed A. Ayoub‏Account @aayoub “Speaking to friends and family in Lebanon, and this is how most of them feel” [Parlando con amici e familiari in Libano, ecco come gran parte di loro si sente” (prima e dopo le minacce saudite)

Nel maggio scorso, nella sua prima visita presidenziale in Medio Oriente, Donald Trump scelse come prima tappa Riyadh per presenziare ad un summit dei Paesi sunniti. In quell’occasione, oltre a firmare accordi in armamenti per 350 miliardi di dollari con l’Arabia Saudita, il capo della Casa Bianca ebbe parole durissime sia nei confronti dell’Iran sia verso Hezbollah. Una linea che The Donald ribadì nella sua seconda tappa mediorientale, in Israele, ricevendo il totale sostegno del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che ha più volte ribadito di considerare l’Iran una minaccia mortale non solo per lo Stato ebraico ma per la stabilità del Medio Oriente e la sicurezza mondiale, ancor più grave dello Stato islamico. Una convinzione che allinea Gerusalemme a Riyadh.

D’altro canto, concordano analisti e fonti diplomatiche israeliane, Israele non può assistere passivamente al continuo riarmo, via Teheran, di Hezbollah. Secondo un recente rapporto dell’intelligence militare di Gerusalemme, attualmente Hezbollah disporrebbe di oltre centomila missili, rispetto ai circa dodicimila che aveva prima della guerra dell’estate 2006. Ma c’è dell’altro. E a metterlo in luce con Huffington Post è Anthony Samrani,   uno dei più autorevoli analisti militari libanesi:

Oltre a un incremento significativo, in quantità e in qualità, del suo arsenale militare, i miliziani sciiti hanno acquisito nuove tecniche di guerriglia urbana combattendo in Siria, a fianco dei pasdaran iraniani, dei russi e dell’esercito di Assad. In cinque anni, Hezbollah è divenuto un attore regionale capace di dispiegare rapidamente le proprie forze dal Libano all’Iraq e ora anche in Yemen.

Secondo il sito French Intelligence, gli Hezbollah starebbero costruendo almeno due installazioni in Libano, dove produrre missili e armamenti. Sebbene questa notizia circolasse da tempo sui siti arabi, il magazine francese ha fornito maggiori dettagli su queste due strutture, indicandone la posizione e la tipologia di armamenti prodotti. Una prima struttura si troverebbe nei pressi di Hermel, nella Beqaa, mentre la seconda sarebbe posizionata tra Sidone e Tiro.

L’orgoglio di un Paese multietnico e multireligioso

Nella prima installazione verrebbero prodotti razzi Fateh 110 capaci di colpire quasi tutto il territorio israeliano, con una gittata di trecento chilometri e un discreto livello di precisione. Nel complesso situato sulla costa mediterranea invece verrebbero fabbricate munizioni di piccolo calibro. Gerusalemme ha ribadito, non solo a parole ma con ripetuti raid aerei, che non accetterà mai che Hezbollah e Iran s’insedino nel sud della Siria.

Negli ultimi mesi, lo Stato ebraico ha moltiplicato gli incontri diplomatici con Mosca, l’altro partner decisivo di Damasco, per provare a convincere la leadership russa a prendere le distanze da Teheran. Ma niente sembra indicare, al momento, che Putin abbia intenzione di incrinare la sua alleanza con l’Iran, tanto più ora che Trump ha saldato un patto di ferro con Arabia Saudita e Israele. E qui il cerchio sembra chiudersi. E le parole del ministro degli esteri saudita ne sono il sigillo. Perché quello proferito dal dignitario di casa Saud, è un j’accuse a tutto campo contro Hezbollah. Colpevole, tra le tante nefandezze elencate, “di fare contrabbando di droga in direzione dell’Arabia Saudita e di addestrare sauditi al terrorismo”. In totale sintonia con Israele, Riyadh non intende più fare distinzione tra l’esercito libanese e le milizie di Hezbollah.

Il diktat è chiaro, così come le conseguenze se fosse disatteso:

Noi tratteremo il governo libanese – ribadisce il ministro degli Esteri saudita – come un governo che ha dichiarato guerra (contro l’Arabia) a causa delle milizie di Hezbollah che esercitano una influenza decisiva su tutte le decisioni assunte dal governo libanese.

Le dimissioni di Hariri indicano che per le petromonarchie del Golfo, la red line è stata superata.

I libanesi – avverte il capo della diplomazia saudita – devono scegliere tra la pace e il sostegno a Hezbollah. Noi ci attendiamo che il governo libanese operi una efficace azione di dissuasione verso Hezbollah. Spetta ora ai libanesi decidere quali rapporti intendono avere con l’Arabia.

Reparti Unifil con militari libanesi in esercitazione

Una crisi esplosiva, quella innescata dalle dimissioni di Hariri, che ci riguarda da vicino, come Italia. E non solo per gli interessi economici e commerciali che Roma ha con Beirut, ma perché nel sud del Paese dei Cedri, l’Italia è impegnata nella missione Unifil 2. Una missione recentemente contestata da Israele e dalla nuova amministrazione Usa. Il duro attacco è partito dall”ambasciatrice all’Onu, Nikki Haley, che accusa la missione di lasciar transitare le armi che Hezbollah invia al regime siriano.

La forza di pace di 10.500 uomini, di cui 1.125 italiani, “non sta svolgendo il suo lavoro in modo efficace”, ha detto Haley. Nel mirino è finito in particolare il comandante di Unifil, il generale irlandese Michael Beary:

Ciò che trovo del tutto sconcertante è il comandante che sembra essere l’unico nel sud del Libano che è cieco, c’è un’imbarazzante mancanza di comprensione di ciò che accade intorno a lui,

ha tuonato la diplomatica nominata dall’Amministrazione Trump.

Washington ha chiesto che i caschi blu, oltre a monitorare il rispetto del cessate il fuoco lungo il confine con Israele, contrastino il traffico di armi che dall’Iran, attraverso la Siria, giungono alle milizie sciite di Hezbollah, come denunciato piu’ volte dal governo israeliano. Un’idea già bocciata dalla Francia per la quale si rischierebbe di mettere a rischio l’esistenza stessa della forza Onu e la sua legittimazione, nonché la sicurezza dei caschi blu schierati nel cuore del territorio controllato da Hezbollah nel sud del Paese dei Cedri, che non dispongono di mezzi e armamenti adatti al combattimento ma solo a perlustrare il territorio e la Linea blu che segna il confine con Israele. E se i venti di guerra tornassero a spirare, come sembra, in Libano, a rischiare sarebbero anche i nostri 1.125 caschi blu.

Guerra in Libano? C’è solo da chiedersi quando. I rischi per l’Italia ultima modifica: 2017-11-11T17:49:34+01:00 da UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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