Dopo mesi di cavalcate impetuose, la Lega di Salvini sembra tirare il fiato. Il sondaggio di Index research, elaborato per Piazza Pulita, il talk de La 7, segnala un primo decremento, di circa lo 0,3 per cento, riportando il partito sotto quota 34. Una quota assolutamente siderale, se pensiamo che solo cinque anni fa lo stesso partito non toccava il cinque per cento, ma che ci fa intuire un possibile primo sbandamento. Tanto più che il sondaggio è stato realizzato nel pieno della polemica sull’appuntamento di Verona, il tanto strombazzato congresso della famiglia, che ha portato il capogruppo leghista in consiglio comunale della città scaligera a sbattere la porta e lo stesso Doge serenissimo, il governatore del Veneto Zaia, ad annunciare vari distinguo rispetto agli annunci codini e omofobi trapelati dal gruppo organizzatore del congresso, tanto voluto dal ministro degli interni. La fatal Verona potremmo dire per il capitano.
Viene così al pettine un secondo rilevante nodo per Salvini. Dopo la faglia che si sta allargando fra il leader della Lega e il grosso del gruppo storico, arroccato attorno ai due governatori del Nord, lo stesso Zaia e il lombardo Attilio Fontana, che reclamano l’esecuzione della missione per cui hanno mandato a Roma il giovane Salvini: l’autonomia aumentata per il Nord.
Un’autonomia che pare incagliarsi nelle secche economiche in cui è ormai impantanato il governo, che già molto ha scialacquato, con il reddito di cittadinanza e la mitica quota cento.
Ora, ai fremiti del lombardo-veneto affiora, proprio dal cuore del voto leghista più identitario della borghesia produttiva del Nordest, l’irrequietezza per la svolta reazionaria e regressiva sul versante dei diritti individuali, in particolare una visione della famiglia legata a cliché oscurantisti, dove la donna è ancora schiacciata da compiti puramente domestici e, di conseguenza, per valori legati a uno stile di vita che certo poco si confà a regioni cosi edoniste e spregiudicate, oltre che ricche e ambiziose.

Diciamo che il fronte dei diritti individuali, maturati da decenni di globalizzazione competitiva, scalpita e non accetta logiche di schieramento che Salvini invece intravede, puntando a inglobare tutta l’opinione più impaurita da ogni forma di progresso culturale.
Nulla di questo invece sembra minacciare il governo dal versante del conflitto sociale. La perdurante sperequazione sempre più accentuata fra chi possiede rendite finanziarie o dotazioni proprietarie rispetto al grosso della popolazione non pare proprio innestare proteste che logorano il consenso del governo, nonostante che l’esecutivo trovi mille ostacoli e mille impacci per realizzare quanto annuncia in materia di sviluppo e di assistenza.
La manifestazione di febbraio delle tre confederazioni sindacali che sembrava poter aprire una stagione di maggior opposizione sociale rimane ancora isolata, come i fuochi di protesta, ad esempio quelli dei pastori sardi o dei correntisti delle banche fallite, non morde il consenso della maggioranza, che continua a poggiare sulle due gambe del populismo all’italiana: la spinta anti elitaria e protestataria dei ceti proprietari e la domanda di assistenza dei ceti marginali del sud. Quello che Bannon continua a indicare come il caso italiano della reazione populista, l’unico paese, spiega l’ex guru di Trump, dove si sono saldati i due populismi, altrove contrapposti, di destra e di sinistra, accerchiando e snaturando i due tronconi della politica precedente: il centro destra e il centro sinistra.
In particolare la sinistra, e il progetto di rilancio del Pd, continua a rimanere zoppa. Non riesce a ingranare un processo di mobilitazione dell’opposizione e soprattutto della direzione di movimenti di reale antagonismo al governo, nell’ambito del mondo del lavoro e in quello delle categorie intermedie, come artigiani, piccoli imprenditori o area del terziario, che se pure borbottano non rompono la pace sociale.

Nelle città il continuo taglieggiamento della spesa sociale non produce protesta, così come nei settori economici portanti, edilizia e mettallurgia, dove la mancanza di una bussola governativa ha del tutto impallato le attività infrastrutturali, rallentando anche i legami con i principali clienti tradizionali del nord europa.
Ma è proprio l’intero comparto marginale, i cosiddetti poveri, le periferie delle città, le grandi tribù dei precari permanenti, dove il governo ha mietuto consenti di massa, e dove oggi si misura la frustrazione e la delusione rispetto alle promesse, che non riesce a tradurre questa frustrazione in ritiro della delega politica. Persino a Roma, dove il governo grillino è ormai solo materia di sarcasmo, non si aprono spazi per alternative.
Una sinistra che non sia in grado di innestare e orientare processi sociali, tanto più se di opposizione a governi che radicalizzano le proprie scelte in senso palesemente conservatore, non può certo stabilizzarsi e tanto meno candidarsi al governo. La facile ricetta che è ripetuta da chi si accalca al capezzale del Pd è quella di ritornare agli ultimi, di immergersi nelle aeree deboli del paese per riprendere il dialogo con questi gruppi disagiati. È il populismo dell’anti populismo.
La sinistra non ha mai avuto una rappresentanza diretta dei poveri, o dei marginali. Tanto meno ha potuto insediarsi nelle aree periferiche delle città. Quando questo è avvenuto, e si è saldato un blocco popolare dove pure larghi strati subalterni ed esclusi dai livelli anche minimi di consumo si sono riconosciuti nei partiti operai, avveniva perché questi partiti erano titolari di potenze politiche che i più penalizzati usavano per recuperare margini di contrattazione sociale e poter avere finalmente quote di reddito e servizi prima negati.
Pensiamo ai primi anni Cinquanta, quando il Pci e il Psi riuscirono a rompere il cordone di isolamento che la maggioranza centrista raccolta dalla Dc degasperiana aveva teso per troncare ogni contaminazione con la sinistra: ebbene, i due partiti del lavoro trovarono linguaggi e forme organizzative per parlare direttamente ai braccianti nelle campagne, ai disoccupati nel sud, agli affamati contadini emiliani e del lombardo veneto solo grazie all’alone di potenza internazionale che l’appartenenza al blocco sovietica dava loro.
Era l’ombra dell’armata rossa, con quel senso di rappresentare l’altra faccia della luna, che permetteva ai quadri comunisti e socialisti di poter promettere pane e lavoro anche a quei disperati. Lo stesso alla fine del degli anni Cinquanta, all’inizio del miracolo economico, era la forte delega che i due partiti avevano dai reparti più organizzati e combattivi del movimento operaio del nord che spingeva gli immigrati dal sud a guardare a questi due partiti come straordinarie macchine di integrazione ed emancipazione. E ancora dopo, nel mitico autunno caldo del ’69-’74, era la mobilitazione sindacale della Flm e della bussola comunista che spingeva, con gli scioperi per l’industrailizzazione del sud, milioni di disoccupati meridionali a rivolgersi alla sinistra per rompere la loro atavica subalternità.

Insomma, senza potenza non c’è potere. Senza poter battere i padroni dei padroni, diceva Di Vittorio, non si poteva pensare di tutelare anche i cafoni. È sempre nel punto più alto dello scontro che si deve vincere per poter poi mutare i rapporti di forze in basso. È dall’anatomia dell’uomo che si ricava quella della scimmia, scrive Marx nei Grundrisse.
Dunque oggi per la sinistra sarebbe vano, oltre che inutile, contendere a Lega e grillini la rappresentanza di una moltitudine popolare sempre difforme negli interessi, abitata da figure ambigue, sempre contaminate da lavoro nero ed evasione fiscale, dove la convenienza personale fa sempre velo a un’azione collettiva, se non dispone di una capacità di interdizione dei centri forti di potere. Il punto è capire chi siano oggi i padroni dei padroni. Sono gli imprenditori? Le banche? Le burocrazie? Certo tutti questi sono l’intreccio gestionale che raccoglie e trasferisce il senso comune, l’egemonia del comando.
Ma il re di oggi, il vero sovrano che riorganizza pensieri e comportamenti, è il ristretto nucleo di monopolisti della potenza di calcolo. Penso a quella schiera di distributori di prodotti e messaggi, titolari di quel poderoso sistema di classificazione di ogni abitante del pianeta, da cui ricavano linguaggi e metriche per ottenere la complicità di ogni individuo. È la potenza di calcolo che oggi sta ridisegnando il pianeta. Come diceva gia Italo Calvino nelle sue Lezioni americane è il software che comanda.
Oggi i primi ventuno gruppi della Silicon Valley hanno capitalizzato sei volte la borsa italiana, più del Pil della Germania.

Se non si sfonda su questo scenario introducendo procedure negoziali e contrattazione politica che producano mediazione e conflitti, e successivamente organizzazione e mobilitazione, non si può pensare di chiedere ai poveri di farsi rappresentare da chi non scalfisce il senso dominante. Meglio accodarsi a chi può distribuire qualche briciola. Tanto più che questo nuovo padrone sta anche derubricando i precedenti: le classi colte, gli imprenditori medio piccoli, le figure di mediazione. Insomma tutta quella gente che si dava arie di benessere a dispetto di chi non si poteva permettere il loro standard di vita.
Tutto questo tramestio sociale è basato sul potere di chi oggi guida la transizione ai nuovi sistemi digitali, a quel processo che come dice Harari vede separare l’intelligenza dalla consapevolezza. Se non si introduce in questa transizione una procedure negoziale che riporta i proprietari del calcolo al tavolo della politica e del conflitto sociale, saranno comunque sempre e solo i populisti a orientare il rancore di chi vuole remunerare la propria frustrazione con la certezza che nessuno di quelli vicino a lui può approfittarne. È materia di una riflessione complessa, e molto lunga, che deve ricostruire categorie logiche e semantiche per trovare strade e canali di comunicazione.
Come scriveva già Marx:
i sudditi sono tali perché pensano che i re sono re, mentre i re sono tali solo perché loro continuano a essere sudditi.

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