Il nuovo millennio sembra avere affinità con la crisi e le paure dell’inizio del millennio scorso. Allora era l’apocalisse di Giovanni a far temere l’arrivo di Satana, oggi è l’uomo a esser causa del suo mal e a pianger sé stesso. Si sono infranti improvvisamente sogni che affondano le radici nei principi illuministi di libertà, fraternità e uguaglianza, fondamento dell’era moderna (da quello industriale dell’età delle macchine, a quello sociale del tempo delle rivoluzioni socialiste e dell’internazionalismo). Al tempo stesso sembrano risorgere gl’incubi nazional-popolari germogliati dalla stessa radice sociale, degenerata in regimi totalitari capaci di concepire e mettere in atto orrori come l’olocausto. Il Novecento è anche il tempo dell’avanguardia non solo artistica perché ha anticipato la globalizzazione con le guerre di scala mondiale, coronate dall’esplosione atomica e dal delirio d’onnipotenza nucleare, nuova frontiera del progresso civile e militare dell’uomo apprendista stregone anche sul fronte medico, dove si passa dalla fecondazione artificiale alla clonazione fino ad approdare alla genetica. Oltre che a produrre energia, il nucleare trova applicazione medica con la protonterapia. Prove tecniche di globalizzazione sono anche le organizzazioni internazionali nate nel secolo scorso con l’obiettivo di perseguire pace, giustizia equità, tra queste acquistano potere reale gli organismi economici, commerciali e finanziari; restano deboli e allo stadio embrionale quelle politiche e giuridiche.
Il termine crisi viene dal greco κρίσις (lotta, decisione) e a sua volta dal verbo κρίνω (separare, distinguere, cernere e discernere). La nostra è crisi epocale, su più fronti.
Crisi etica e sociale, perché ha preso il sopravvento la sopraffazione, sui più deboli, sull’ambiente, perfino su sé stessi, proiettati come siamo su lavoro, successo, ambizione. Si uccidono le donne per smania di possesso, si fanno affari con le armi ma si lasciano annegare poveri disperati che fuggono da fame e guerra, non si dialoga: si parla senza ascoltare.
Crisi culturale, a causa di un sapere inaridito dalla specializzazione e dal prevalere della componente scientifico-economica su quella umanistica, senza dar vita alla Grande Alleanza teorizzata da personalità come il filosofo Edgar Morin o il premio Nobel Ilya Prigogine.
Crisi politica, per il dilagare di populismo e nazionalismo dopo il passaggio delle consegne da una classe dirigente d’imprenditori della politica (i corrotti) a un’altra d’imprenditori nella politica (i corruttori).
Crisi economica, aggravata da liberalismo e capitalismo a cui si è dato spazio pretendendo di attenuarla ma che l’hanno invece voracemente alimentata fino a cancellare la classe media, concentrare la ricchezza in poche mani, ridurre in miseria una larga fascia della popolazione.
Crisi ambientale, aggravata dall’inascoltato allarme della scienza vanificato da politica ed economia che si appropriano delle parole per sterilizzarle e svuotarle di contenuto, com’è avvenuto con il concetto di sostenibilità, ridotto a slogan applicato indiscriminatamente come aggettivo o sfruttato per aprire prospettive produttive nuove ma non sempre innovative. Innalzamento della temperatura, scioglimento dei ghiacci, tempeste e uragani, maree, incendi, e con i polmoni del pianeta i roghi dei mesi scorsi hanno mandato in fumo anche le nostre certezze.
Crisi sanitaria, sarà un caso ma il coronavirus attacca l’uomo proprio ai polmoni, riducendo la capacità dell’organismo di assorbire l’ossigeno e il Prāṇa, l’energia vitale. Pareva che dovesse colpire i più deboli invece, sebbene restino gli anziani e malati le categorie più esposte, il virus colpisce indistintamente mettendo in ginocchio anche il miglior sistema sanitario per l’entità della diffusione e la gravità delle patologie. Altro elemento singolare è che colpisce le zone più densamente industrializzate del paese, in Cina come in Europa e in Italia.
La crisi separa, è un’occasione di discontinuità che può essere preziosa. Il coronavirus sembra un messaggio della Natura all’uomo per invitarlo a correggere la rotta, anche se in realtà la natura è indifferente alla sofferenza del singolo (individuo o specie che sia) a tutela della vita nel complesso. Un cambiamento di prospettiva s’impone e sarà inevitabile: nulla sarà più come prima, in termini sociali/generali e psicologici/individuali. È come dopo la scoperta della morte del sole nell’Ottocento, prima di allora nessuno aveva mai ritenuto possibile che il sole un giorno potesse esaurirsi e spegnersi poi sopraggiunge la consapevolezza della fine, per quanto remota.
Sforzarsi di dare un senso alle cose aiuta l’uomo a non smarrirsi davanti all’ignoto, può essere la sua forza o la sua debolezza, a seconda se si punta alla risposta o se ci si concentra sulla ricerca, il cui scopo non è trovare (logica economica) ma cercare, con rigorosa libertà e inter-ligenza (capacità di leggere tra le righe). Ricerca è interrogazione, problema, questione, domanda.
Qual è la conseguenza della crisi?
Un senso d’incertezza, smarrimento, instabilità, insicurezza, incapacità di distinguere la casualità dalla causalità. “Dio è morto, Marx pure… e neanch’io mi sento tanto bene!” così recitava – con sintetica efficacia di forma poetica – un aforisma di Eugene Ionesco, drammaturgo rumeno, esponente del “teatro dell’assurdo” che faceva della comicità e del nonsense il mezzo con cui mettere in scena l’angoscia e il fatalismo, destino pre.scritto, cosa altra e diversa dal karma della tradizione orientale che ha origine nella Legge (divina) ma che è scritto quotidianamente dall’uomo, nella consapevolezza che qui e ora si scrive il domani. La superstizione e l’auspicio, fondate su caso e imponderabilità, stanno guadagnando terreno sulla previsione scientifica, basata su proiezione statistiche che, per quanto probabili, conservano un margine d’incertezza. Per vincere l’insicurezza, dobbiamo capire cos’è e per farlo occorre definire il suo opposto. La sicurezza è una percezione soggettiva o può essere oggettivamente definita?

L’approfondimento che segue è rivolto a un lettore non specialista. Sicurezza in italiano è una parola con due accezioni mentre in inglese le parole restano distinte come i significati: safety (sicurezza come salute e salvezza) e security (sicurezza come sorveglianza antintrusione). Entrambi i termini hanno in comune l’azione della vigilanza finalizzata alla protezione. Procediamo con ordine: partiamo dalle parole chiave (Glossario), poi passiamo a un riepilogo storico-cronologico (Sicurezza sopra.tutto) per andare alla sicurezza applicata in generale (Sicurezza sotto.stante) e in particolare nel settore pubblico (Sicurezza in comune).
Nella sicurezza
GLOSSARIO
Sicurezza deriva dal latino securitas e a sua volta da se- in senso disgiuntivo e -cura nel senso di attenzione, cura, riguardo. Vuol dire quindi “senza cura” e può avere accezione negativa di noncuranza, negligenza, incuria, oppure positiva di quiete, calma, tranquillità. In italiano prevale quest’ultima ed è quindi “senza cura” non come disattenzione per distrazione ma piuttosto nel senso che non richiede attenzione proprio perché non comporta rischi: è in sostanza un prendersi cura a monte per garantire serenità a valle. “A proprio rischio e pericolo” è una locuzione interessante perché associa un comportamento non sicuro a due termini che vengono spesso erroneamente considerati sinonimi.
Pericolo, viene dal latino peri-culum che vale per prova, esperimento, cimento, non è conseguenza di fattori esterni ma è una proprietà intrinseca, passiva. È qualcosa (situazione, oggetto, persona, sostanza, ecc.) che ha in sé la capacità di causare un danno a persone o cose.
Rischio deriva invece dal latino resecare (tagliare) e dal latino medievale riscus e risigus che sta anche per scoglio cioè roccia tagliata a picco da cui il senso figurato di pericolo (per le navi). È quindi un fattore, un pericolo non necessariamente presente ma possibile in relazione a una determinata circostanza. S’introduce così l’idea d’incertezza e quindi d’azzardo in un’azione che può determinare una determinata circostanza non sicura.
Un coltello è in sé pericoloso perché tagliente, ma se sta nel cassetto non comporta rischi. Solo nel momento in cui lo prendo e lo utilizzo diventa rischioso in rapporto a un insieme complesso e variabile di fattori (esperienza, padronanza, perizia, intenzioni. ecc.). Rischio è nozione complessa definita da una formula precisa: R=PxG (o FxM che dir si voglia). È cioè il prodotto della Probabilità (o Frequenza) che si verifichi un danno in base all’esposizione a un dato pericolo, per la Gravità (o Magnitudo) del danno che si determina nel malaugurato caso in cui l’evento dannoso si verifichi.
Proviamo a fare qualche esempio applicando questa formula. Nel 2009 Berlusconi, allora presidente del Consiglio, firma un accordo con il presidente francese Sarkozy per la realizzazione di quattro centrali nucleari EPR (di terza generazione) in territorio italiano, in spregio al referendum post-Chernobyl del 1987 che bandiva il nucleare. L’argomento portato da Berlusconi era che le centrali EPR sono estremamente sicure. Ammettiamolo, riducendo al minimo la probabilità che accada un incidente (fattore F, o P che dir si voglia). Andiamo ora al secondo fattore, la Magnitudo (o Gravità) del danno chiedendoci: quanto gravi sarebbero le conseguenze nel malaugurato seppur remoto caso in cui un incidente si verifichi? Considerata la potenza delle centrali di Chernobyl (1.000 Mw) e Fukushima (1.100 Mw) e tenuto conto che la potenza delle centrali proposte sarebbe stata di 1.600 Mw ciascuna si capisce bene che le conseguenze sarebbero gravissime determinando un rischio non ammissibile. Esercizio analogo potrebbe essere applicato alle grandi navi, non solo da crociera ma anche alle petroliere che solcano la laguna: se anziché sulla banchina portuale la MSC-Opera fosse andata a schiantarsi contro le fondamenta delle zattere o della Giudecca sarebbe entrata come nel burro entrando in casa.

Sicurezza sopra.tutto
La sicurezza è materia nota fin dall’antichità. Già nel IV sec. a.C. Ippocrate si occupava del rapporto tra malattie e lavoro invitando i suoi allievi a informarsi preventivamente sul lavoro dei pazienti per meglio diagnosticare le malattie. In Italia le prime norme sulla sicurezza sono promulgate alla fine dell’Ottocento, seguite da altre nella prima metà del Novecento. Un impulso importante arriva negli anni Cinquanta-Sessanta durante il boom economico e la ricostruzione postbellica, ma è a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta che si avvia in Italia una rivoluzione culturale copernicana, per via del recepimento di normative europee ma soprattutto grazie alla spinta emotiva venuta da disgrazie come quella del 13 febbraio 1983 al cinema Statuto a Torino, che fa 64 vittime. Il 7 dicembre 1984 la Legge n. 818 introduce il NOP (“Nulla-osta provvisorio per le attività soggette ai controlli di prevenzione incendi, modifica degli articoli 2 e 3 della legge 4 marzo 1982, n. 66, e norme integrative dell’ordinamento del Corpo nazionale dei vigili del fuoco”) e il coinvolgimento di professionisti iscritti in apposite liste di esperti abilitati in antincendio. Prima ci si può iscrivere in virtù dell’anzianità di pratica professionale e poi solo dopo avere seguito percorsi formativi specifici. Nonostante le normative degli anni Cinquanta, la sicurezza era oggetto di contrattazione tra aziende e lavoratori: era consuetudine monetizzare il rischio sottovalutandola la questione e riducendola a un mero riconoscimento economico in busta paga.
Negli anni Novanta avvengono in Italia innovazioni epocali in materia di sicurezza, cambia radicalmente l’approccio e si avvia un processo di revisione complessiva della materia in recepimento di direttive europee, che si concluderà con il D. Lgs. n. 81 del 9 aprile 2008 meglio noto come Testo Unico della Sicurezza o Codice della Sicurezza. Con la nuova stagione, si fa della sicurezza oggetto di approccio sistematico:
- si avvia un processo di riforma e di progressivo riordino dell’apparato normativo della materia nei suoi diversi aspetti,
- vengono emanate norme tecniche mirate su specifiche attività;
- si formano nuove figure professionali.
Dalla concezione della sicurezza ancorata alla nozione di pericolo si passa alla nuova concezione legata al rischio, che non dipende dalla percezione (istintiva) ma dalla cognizione (razionale). Per questo formazione e informazione acquistano progressivamente valenza di strumenti indispensabili per garantire corrette modalità nello svolgimento di un’attività lavorativa e nell’utilizzo di dispositivi, strumenti, attrezzature.
Quando l’approccio alla sicurezza acquista carattere scientifico, dal pericolo come attributo astratto e imponderabile, si passa al rischio come elemento preciso e calcolabile a partire dalla sua formula. Il cambio di marcia è determinante e la strategia da passiva si fa attiva. Si mette l’accento sulle misure da adottare per ottenere la massima riduzione del rischio, che per definizione non si elimina ma si riduce. La gestione della sicurezza si articola in due azioni che contrastano il rischio riducendo i suoi due fattori: la prevenzione incide sulla frequenza (abbassa la probabilità che un dato evento dannoso possa avvenire) mentre la protezione incide sulla magnitudo (contenendo il danno nel caso in cui avvenga un dato evento dannoso).
Il perno della gestione della sicurezza è il datore di lavoro, titolare del rapporto con il lavoratore, cioè il proprietario/amministratore di una ditta (in virtù dei suoi rapporti di lavoro con i dipendenti) ma anche il semplice committente privato (per i rapporti con le ditte incaricate di lavori). Tutti noi quando chiamiamo l’antennista o il muratore o l’impiantista abbiamo una quota rilevante di responsabilità. Nelle aziende funzioni, competenze e responsabilità vengono declinate in modo preciso a seconda della dimensione della ditta e dell’organizzazione del lavoro, individuando varie figure dal dirigente al singolo lavoratore. Tra queste spicca il preposto, una funzione che può venire da nomina o anche solo dall’autorevolezza sul campo: chi fornisce istruzioni su come operare ed è punto di riferimento per i meno esperti assume automaticamente la qualità di preposto, da quel momento gravano su di lui le responsabilità di quel ruolo pur non essendo mai stato nominato tale. Il sistema della sicurezza è dunque strettamente correlato all’organizzazione interna, ma la responsabilità maggiore resta in capo a colui che ha la responsabilità dell’organizzazione del lavoro che può essere il titolare della ditta o il responsabile di un dato settore (dirigente, direttore, funzionario ecc. a seconda della organizzazione aziendale).
Per essere effettivamente efficace, la sicurezza deve superare la dimensione prescrittiva e diventare pratica condivisa; occorre coinvolgere e far capire le ragioni di divieti e prescrizioni, che non vanno imposte d’imperio altrimenti si relega il lavoratore al ruolo di controparte, che può non dare piena collaborazione temendo di avere responsabilità. La formazione, in questo caso, non è studio scolastico di leggi e norme a memoria ma contributo alla formazione di una forma mentis. Analisi e verifiche devono essere costanti e spontanee, non solo da parte degli organi competenti per sanzionare chi non rispetta le norme, ma da parte di tutti lavoratori per tutelare loro stessi e gli utenti. Ciò richiede partecipazione, approfondimento continuo, ascolto delle osservazioni e dei dubbi degli operatori, riflessione periodica in momenti di confronto comuni. Lo sforzo dev’essere indirizzato al consolidamento del senso di appartenenza alla medesima squadra. Ciononostante, la sicurezza continua ad esser spesso percepita come un fastidioso onere che vincola la realtà produttiva, quasi che la tutela della salute e dell’ambiente debbano stare in contrasto all’economia e al lavoro. Gli stessi lavoratori hanno a lungo considerato le prescrizioni come fastidiose e inutili imposizioni, che complicano il lavoro.
Sicurezza sotto.stante
Se con l’attribuzione di competenze, l’adozione di obblighi, l’applicazione di sanzioni, la legge ha inteso far sentire tutti coinvolti e alimentare il senso di responsabilità di ciascuno, la sua applicazione è stata talvolta finalizzata più al rispetto formale delle norme per non esporre a rischi di azioni penali il datore di lavoro (sicurezza di carte), che a garantire condizioni di reale sicurezza nello svolgimento delle attività lavorative (sicurezza di fatto). Ciò che riduce la distanza tra gli indirizzi di ordine generale delle norme e le condizioni del caso specifico è la valutazione dei rischi lavorativi, riportata nel Documento di Valutazione dei rischi (DVR) che individua e valuta i rischi insiti in una determinata attività lavorativa (in rapporto a spazi, modalità lavorative, attrezzature, strumenti) e adotta le misure opportune alla loro massima riduzione. Il documento non è preparato una volta per tutte ma dev’essere aggiornato annualmente o anche nel corso dell’anno ove utile e necessario. Deve avere requisiti di agilità e dinamicità, va modificato e integrato a ogni cambiamento che sopraggiunga. La mancata individuazione, valutazione, attenuazione di un rischio è carenza grave che può avere rilevanza penale. Di contro, l’azione tempestiva di aggiornamento o integrazione della valutazione dei rischi è indice di qualità ed efficienza del Servizio di Prevenzione e Protezione, che ha il suo perno nel Responsabile, appositamente formato.
In questi giorni, si è evidenziata l’inadeguatezza delle aziende private e degli uffici pubblici nella gestione della sicurezza connessa all’emergenza sanitaria. La legittima preoccupazione per le conseguenze che il rallentamento/arresto delle attività produttive avrebbe provocato, andava bilanciata e temperata analizzando la situazione e prendendo misure adeguate al caso, anche senza aspettare prescrizioni normative. Il problema è stato invece affrontato facendo prevalere l’aspetto economico e la continuità della produzione, anziché attivarsi subito e prendere misure di contenimento del rischio tali da contenere l’inevitabile calo produttivo. La risposta prevalente? Prosecuzione della produzione o chiusura, licenziamenti o ferie obbligate (arretrate o meno), cassa integrazione. Tutte misure economiche di stampo “manageriale”. Si è cercato in ogni modo di non ridurre la produzione aspettando istruzioni dagli organi pubblici di grado superiore e crescente (comune-regione-governo) mentre, comunque, la valutazione dei rischi aziendali andava avviata perché di competenza del singolo datore di lavoro coadiuvato dal Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione (RSPP). Ogni azienda e specialmente quelle di una certa dimensione avrebbero dovuto formare unità di crisi interne, anziché demandare le soluzioni al potere pubblico perché la responsabilità di garantire la sicurezza e la salute resta comunque in capo al datore di lavoro. La sicurezza è stata considerata sotto.stante, anziché utilizzarla come strumento per agevolare il superamento dell’emergenza. La questione ha rilevanza perché dimostra la subordinazione dell’etica (e di ogni altra istanza) all’imperativo delle ragioni economiche.
Ad esempio, stupisce che un’azienda controllata da Cassa Depositi e Prestiti come Fincantieri (il 71,32 per cento è detenuto da CDP Industria S.p.A) abbia continuato la produzione senza sentire necessità di prendere misure. Si tratta della stessa azienda in cui si sono verificati di recente gravissime e diffuse pratiche di caporalato per sfruttare all’inverosimile lavoratori extra-comunitari dipendenti di ditte esterne ma operanti in azienda. Nonostante l’emergenza né Fincantieri, né le ditte esterne subappaltatrici, né ACTV (azienda partecipata) hanno sentito la necessità di avviare un’opportuna azione di cooperazione e coordinamento per ridurre l’affollamento sugli autobus che a fine turno sono sempre stipati all’inverosimile di lavoratori, trattati come carne da macello. Vero è che il Documento Unico di Valutazione dei Rischi Interferenziali (DUVRI) è prescritto dal Codice della Sicurezza per aziende che svolgono attività lavorative in ambiti comuni (sicurezza di carta) ma il buon senso avrebbe dovuto suggerire di perseguire l’efficacia della tutela della salute e della sicurezza anche adottando forme di coordinamento come la Conferenza di Servizi (sicurezza di fatto), ciò avrebbe fatto compiere un salto di qualità della norma da prescrittiva a prestazionale.
Un altro esempio: è sconcertante leggere nel comunicato del comitato di redazione del Corriere del Veneto pubblicato il 14 marzo che
La notizia che il coronavirus ha contagiato tre colleghi della redazione centrale di Padova del Corriere del Veneto ha bussato ieri di prima mattina alla nostra porta, cogliendo totalmente impreparata una delle aziende di proprietà del presidente Urbano Cairo. Da giorni infatti, prima quando è esplosa l’epidemia, da lunedì, quando una collega è rimasta a casa con febbre alta, l’azienda ha colpevolmente rimandato gli interventi previsti per mettere in sicurezza la redazione e la fattura del giornale. Al contrario di quanto detto dallo stesso Cairo pubblicamente e alla faccia di un’azienda che ha più volte annunciato trionfalmente di essere tornata a un vittorioso utile, in questi anni è stata fatta soltanto una politica di riduzione dei costi, rendendo la nostra dotazione tecnologica talmente obsoleta da aver costretto a rinviare il cosiddetto lavoro agile.

Sicurezza in comune
Per quanto riguarda la pubblica amministrazione il legislatore chiarisce esplicitamente che il datore di lavoro è il “dirigente al quale spettano i poteri di gestione” del singolo ufficio in cui viene svolta l’attività oppure il “funzionario non avente qualifica dirigenziale”, ma soltanto ove abbia autonomia gestionale e decisionale di spesa. In realtà l’autonomia di spesa è concetto da prendere con cautela dato lo stato di crisi economica in cui versano le pubbliche amministrazioni e considerata l’organizzazione interna. In ogni caso resta inteso che l’organo di vertice continua a sottostare a tutte le responsabilità che gli competono “strutturalmente” data la sua posizione apicale in seno alla P. A. Per esempio, è in capo al vertice il potere di stabilire il budget da destinarsi alla sicurezza e quindi di decidere se mettere a disposizione del datore di lavoro risorse economiche adeguate o meno a metterlo in condizione di soddisfare e implementare le condizioni di sicurezza e salubrità dell’ambiente di lavoro.
Prendiamo in esame il caso del Comune di Venezia. Il Servizio di Prevenzione e Protezione (SPP) è formato da:
- singolo Datore di Lavoro (più d’uno ce ne sono una trentina, responsabili per oltre 200 sedi lavorative),
- Responsabile Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP, uno),
- Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS, più d’uno),
- Medico Competente (MC, più d’uno).
L’RSPP è il fulcro della gestione della sicurezza, cinghia di trasmissione tra il datore di lavoro e i lavoratori. Ogni anno redige il Documento di Valutazione dei Rischi (DVR) e gli altri documenti della sicurezza (Piani di Sicurezza e di emergenza, Procedure Operative, ecc.) aggiornandoli con le variazioni sopraggiunte allo stato dei luoghi o nell’organizzazione del lavoro ma anche con nuove misure tese al perfezionamento e miglioramento delle strategie di gestione della sicurezza; nel corso dell’anno vigila con sopralluoghi e incontri periodici sulla funzionalità e adeguatezza della misure di sicurezza adottate, raccoglie segnalazioni da lavoratori e responsabili dei vari settori/reparti, gestisce a livello centrale con l’SPP la fornitura di dotazioni e servizi in rapporto alle somme messe a disposizione per le attività di sicurezza (formazione, sorveglianza sanitaria, DPI, ecc.). Il quadro generale è documentato in appositi registri e nel DVR aggiornato con regolarità.
Ben venga l’articolazione di ruoli, competenze e responsabilità a condizione che non diventi separazione grazie alla formazione di un sistema virtuoso di scambio d’informazioni con spirito collaborativo. In realtà: all’RSPP non si riconosce quell’autonomia di giudizio e di azione che gli dovrebbe esser propria per agire prontamente, più spesso è vincolato dalla sua condizione di consulente o dipendente; le spese per la sicurezza dovrebbero seguire canali privilegiati invece il datore di lavoro adotta procedure ordinarie con vari passaggi tra uffici prima di essere operative; il lavoratore, da parte sua, sottovaluta e trascura il suo ruolo attivo nella qualità di operatore sul campo che deve concorrere a risolvere i problemi e non solo sottolineare le lacune, preferendo vestire i panni della controparte e avanzare rivendicazioni di carattere sindacale.
Complementare alla pre.visione è l’applicazione, con una pletora di variabili, eccezioni, imprevisti che possono esporre il datore di lavoro o l’RSPP a critiche che possono essere strumentali quando legate a condizioni contingenti extra-ordinarie. Nel progetto di gestione della sicurezza come processo in divenire, le lacune veramente gravi sono quelle di natura strutturale, tese a rallentare la spesa sottovalutando colpevolmente i rischi o le misure atte alla loro riduzione. Grave è la carente o inadeguata formazione che non consente agli operatori della sicurezza di agire con tempestività ed efficacia davanti a circostanze nuove e mai previste. Nei casi di emergenza interviene la squadra degli Addetti alla Gestione dell’Emergenza (AGE) appositamente formata a cura del SPP, e si fa carico dei primi interventi urgenti: primo soccorso, verifica dell’evento dannoso (localizzazione, entità, ecc.), allarme accoglienza e assistenza dei soccorsi, evacuazione. Tale organizzazione è calibrata su un incidente di entità contenuta e può rivelarsi inadeguata in caso di calamità ed emergenze gravi e prolungate. In questi casi è opportuno mettere in atto un coordinamento dell’emergenza che coinvolga tutti, una sorta di unità di crisi interna.
È questo il caso dell’emergenza sanitaria conseguente al corinavirus che emergenza con un rischio grave, improvviso, imprevedibile e dilagante. Qui si dimostra l’efficacia del sistema sicurezza nell’insieme che richiede: prontezza e flessibilità nel datore di lavoro, collaborazione dei lavoratori, un intervento del RSPP nel predisporre istruzioni e procedure operative commisurate alle circostanze. Tali procedure non saranno magari dettagliate per ogni singolo scenario lavorativo né precise una volta per tutte (data la situazione ignota, senza precedenti e in evoluzione che ci si trova ad affrontare) ma in rapporto al quadro generale delle informazioni disponibili. S’indicheranno misure agili e tempestive, basate sulla dotazione di Dispositivi di protezione individuale da fornire e in loro assenza misure alternative di sicurezza equivalente. Impossibile pensare di correggere istantaneamente il DVR di centinaia di sedi, si possono/devono però prendere immediate misure specialmente per i lavoratori maggiormente esposti a rapporti con il pubblico o perché operanti in spazi pubblici (ad esempio i lavoratori della Polizia municipale). Nel caso degli uffici comunali di Venezia le disposizioni al personale sono venute dal dott. Giovanni Braga, direttore Sviluppo organizzativo e strumentale, a cui fa capo l’ufficio Logistica e sicurezza sul lavoro di cui è responsabile il dirigente Andrea Bellotto sotto il quale lavora l’RSPP, con un approccio che sembra stare più sul piano dell’organizzazione del lavoro e del personale che su quello della gestione della sicurezza e dell’emergenza. La linea gerarchica sindaco-direttore generale-direttore settore-dirigente-RSPP, indebolisce l’RSPP e al tempo stesso aumenta le responsabilità in capo al sindaco che ha stabilito questa linea di comando.
In materia di sicurezza è poco utile cercare capri espiatori, e l’accertamento di colpe o responsabilità compete alla magistratura. In generale, a meno di circostanze precise e circostanziate, prevale una responsabilità collettiva e condivisa seppur differenziata in relazione ai ruoli e ai poteri, insomma vige una sorta di concorso di colpa dove nessuno si può tirar fuori per intero. Questa vuole essere una riflessione sul “sistema sicurezza” e sull’importanza di superare la rigidità prescrittiva con un approccio prestazionale e ha carattere critico-analitico, è finalizzata al miglioramento dell’efficacia operativa grazie al miglioramento dell’approccio alla sicurezza come coscienza e consapevolezza in una prospettiva di partecipazione collaborativa. Non si può solo aspettare che altri (i superiori) provvedano e prescrivano, serve ragionare e agire tutti insieme, ascoltare e far sintesi, evitare ridondanze, non parlarsi addosso, dare ciascuno il proprio contributo nella ricerca delle soluzioni più appropriate, sotto la regia del datore di lavoro coadiuvato dal RSPP. Non il caso di fare le pulci alle misure adottate dai singoli SPP di enti e aziende messi sotto pressione e investiti da un autentico tsunami. Sarebbe peraltro oltremodo scorretto farlo con il senno di poi, meglio riflettere sugli errori per imparare a far meglio.
P.S.
Considerazioni a parte merita la politica.
Politici e amministratori dovrebbero agire con senso di responsabilità, senza approfittare delle contingenze per strumentalizzazioni e polemiche a scopo politico o elettorale. Non si può fare a meno di rilevare il comportamento demagogico di politici nazionali e amministratori locali che hanno tenuto una condotta irresponsabile, con atteggiamenti contraddittori oscillanti tra un arbitrario ridimensionamento del rischio e l’esaltazione allarmistica, apparendo come principianti alla guida di un’auto che pestano a fondo sul pedale del freno e subito dopo a paletta su quello dell’acceleratore, in sequenza: si è passati dalla protesta con richiesta di eliminazione della zona rossa, alla minaccia di coprifuoco con l’esercito.
Discutibile poi la scelta del presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana di ricorrere alla consulenza di Guido Bertolaso. Specializzato in malattie tropicali e presidente del Dipartimento di Protezione civile nazionale dal 2001 al 2010, per cui non gli si può contestare l’esperienza ma ha un evidente conflitto d’interessi essendo stato dimissionato nel 2010 dalla DPC e dalla carica di sottosegretario nel governo Berlusconi e potendo avere interesse ad attaccare chi occupa il posto che è stato suo così a lungo per riacquistare credibilità, cercando di far dimenticare la regia dell’operazione “ricostruzione” in Abruzzo dopo il terremoto del 2009 critica nel metodo (le procedure d’appalto) e nel merito (la scadente qualità degli interventi). Che si tratti di una scelta politica lo conferma l’attacco contestuale portato al governo.
Ci sono poi i casi umani com’è il presidente della Campania De Luca che il 13 marzo in una diretta Facebook ha detto:
In Cina stanno uscendo dalla crisi, ma hanno metodi educativi e pedagogici più efficienti. Un uomo di 23 anni era uscito dalla quarantena ed è stato fucilato. L’Occidente non ha questi metodi terapeutici.
Complimenti anche al sindaco di Venezia Luigi Brugnaro che alla fine di febbraio e nonostante la diffusione della notizia del primo infetto a Mira, comune della città Metropolitana di cui è Sindaco, posta dal suo account ufficiale di sindaco su Twitter un video in cui passeggia con la moglie canticchiando allegramente alla faccia della paura e del coronavirus. Non soddisfatto ne infila poi una dietro l’altra: incurante dei rischi, si dichiara contrario all’ipotizzata chiusura delle attività produttive non indispensabili; lascia proseguire l’attività comunale (degli uffici, del consiglio e delle commissioni); anziché metter su una unità di crisi che prenda misure in tutela della salute e della sicurezza si dedica a girare per la città in favore di fotografo. Dulcis in fundo va a pregare al santuario della Madonna della Salute, attività che può competere alle autorità ecclesiastiche ma è discutibile possa essere considerata “uscita necessaria e non evitabile” anche per un sindaco, apparendo piuttosto una trovata pubblicitaria in cui si potrebbe configurare una violazione delle prescrizioni ministeriali a tutela della salute e della sicurezza della popolazione.
Nonostante l’asserito blind trust, Brugnaro non sembra esser mai riuscito a dismettere i panni del Capitano d’industria, accentrando il potere e gestendo il comune con logica aziendale verticistica. Nella qualità d’imprenditore ha di certo cognizione delle responsabilità del datore di lavoro sulla sicurezza, incrementate nel caso specifico dato che il Sindaco, oltre che datore di lavoro dei dipendenti comunali, è responsabile della pubblica incolumità ed è parte del servizio nazionale di protezione civile insieme a tutte le autorità che, secondo il principio di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, garantiscono l’unitarietà dell’ordinamento esercitando, in relazione ai rispettivi ambiti di governo, le funzioni di indirizzo politico in materia di protezione civile.
Un segnale sbagliato arriva anche dal governo, che nomina Commissario per l’emergenza coronavirus Domenico Arcuri, da tredici anni amministratore delegato di Invitalia, l’agenzia nazionale per gli investimenti e lo sviluppo d’impresa controllata dal ministero dell’Economia, quasi che il pur importante versante economico dell’emergenza debba prevalere su quello sanitario: ambiente, salute e lavoro sono correlati e devono essere reciprocamente compatibili, non devono stare in competizione e se ci stanno la priorità va riconosciuta a salute e ambiente, anche perché questa crisi sanitaria dimostra che i danni ambientali e alla salute hanno i costi strabilianti, in grado di mettere in ginocchio la più solida delle economie come quella cinese. L’agenda politica non può continuare a essere dettata dall’economia, dalla speculazione finanziaria, dai mercati. Occorre invertire le cose e dare alla politica la rilevanza e la dignità che le spetta, per farlo serve rilanciare la cultura politica per formare una nuova classe dirigente credibile e competente, adeguata alla dimensione dei compiti che l’aspettano, nulla sarà più come prima.

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