Con Torino, la sua storia, le sue lotte, Piero Fassino ha una lunga storia di “amore” politico:, da dirigente del Pci torinese, fu responsabile fabbriche negli anni duri della lotta al terrorismo delle Br, poi da segretario nazionale dei Ds, successivamente da sindaco. In questi ruoli diversi, Fassino – oggi senatore del Pd e presidente della Commissione esteri del Senato – ha avuto modo di conoscere Cesare Romiti. Un rapporto che è proseguito nel corso degli anni. Sulla figura dell’ex a.d. della Fiat, si è detto e scritto molto. Meno, o quasi nulla, su ciò che andrebbe recuperato, della storia di quegli anni, segnati fa un conflitto sociale molto aspro, che ebbe nella lotta alla Fiat e Torino il suo centro. Recuperato in termini di memoria e non solo. Ed è quello che chiediamo all’ex segretario dei Ds.
Guardando la storia di quegli anni, dentro cui c’è anche il tuo rapporto con Cesare Romiti, con gli occhi dell’oggi, di quel mondo, di quella storia, che cosa rimane e, soprattutto cosa vorresti che fosse trasmesso alle giovani generazioni?
Il mondo di allora è alle nostre spalle. La lotta alla Fiat, in qualche modo, fu l’ultima grande lotta di un ciclo. Dopo quella sconfitta s’aprì una fase del tutto diversa, non solo alla Fiat ma nell’intero sistema industriale italiano. I processi di ristrutturazione maturarono anche in moltissime altre aziende, a partire dal settore dell’automobile e della sua componentistica. In quegli stessi mesi ci fu la grande ristrutturazione alla Pirelli, in cui, però, una gestione sindacale del tutto diversa, guidata da Sergio Cofferati, gestì un numero di esuberi proporzionalmente agli organici della Pirelli, più grande degli esuberi della Fiat, ma senza i drammi e la sconfitta che invece l’intransigenza sindacale alla Fiat fece maturare.
Il mondo è cambiato. È cambiata la produzione, dal ciclo meccanico siamo passati a una produzione segnata dal ciclo informatico; il profilo dei lavoratori è cambiato profondamente, perché il numero delle tute blu è tendenzialmente diminuito a favore dei colletti bianchi; le prestazioni individuali sono cambiate, la catena di montaggio così come l’abbiamo conosciuta in quegli anni non c’è più, e laddove c’è oggi è sostituita dai robot; la funzione dei lavoratori è assai più funzione di controllo delle macchine che non di prestazione diretta.
Tutto questo ha cambiato le forme della rappresentanza sindacale, ha cambiato le forme della contrattazione, ha cambiato il profilo delle imprese e dei soggetti fondamentali che intorno a un’impresa vivono, chi un’impresa dirige, chi ci lavora e chi deve rappresentarli. È cambiata l’impresa ed è cambiato il sindacato. Cosa mi piacerebbe non si smarrisse? Il ricordo di Romiti mi dà l’occasione per dire che vorrei non si smarrisse la memoria…
Questo pericolo esiste?
Noi viviamo in un tempo segnato da un paradosso: disponiamo di una tecnologia, il digitale, che consente d’immagazzinare un’infinita quantità di conoscenze, ma quel digitale è anche così pervasivo e invasivo, e vive così nell’istante, che continuamente quelle conoscenze immagazzinate sono esposte al rischio dell’oblio. Quello che accumuli qualche istante prima, è già vecchio. E tutto questo rischia di far sì che l’oblio soppianti la memoria. Coltivare la memoria significa dare consapevolezza alle generazioni che si succedono di ciò che è accaduto prima. E solo se conosci ciò che è accaduto prima sei in grado di governare il presente e di immaginare il futuro.
E poi vorrei si ridesse centralità a certi valori, a cominciare dal valore del lavoro. Io continuo a essere convinto che quello del lavoro è un valore che non cambia, anche se cambiano le sue modalità, forme e organizzazione. I valori non cambiano con il trascorrere del tempo, i valori attraversano il tempo.
In quegli anni c’era una espressione che lo rimarcava: “centralità del lavoro”, oggi venuta spesso meno. Perché i cambiamenti delle forme del lavoro e il manifestarsi di precarietà si è tradotto nel considerare il lavoro meno importante, meno centrale. Non è così. Il lavoro non è soltanto la prestazione con cui un uomo o una donna si procura un reddito per vivere. Il lavoro è anche il luogo in cui s’estrinsecano la creatività umana, la fantasia e l’esperienza di ciascuno di noi, la capacità di saper fare dell’intelligenza umana. Quando tu incontri una persona, dopo avergli chiesto come si chiama, la seconda cosa che gli chiedi è: cosa fai? Perché quel che una persona fa determina la sua identità.
La centralità del lavoro è un valore che abbiamo il dovere non solo di non smarrire ma di ricostruire, sapendo che oggi la centralità del lavoro si organizza e si esprime in modo diverso dalle forme con cui si esprimeva nel 1980. Cambiano le forme, non il valore. E tu dai valore al lavoro, intanto quando un lavoro è sicuro e non devi morire per lavorare, come capita a 1700 persone ogni anno in Italia. Un lavoro ha valore quando lo riconosci professionalmente, quando lo remuneri adeguatamente, quando lo tuteli contrattualmente e legislativamente, cioè quando al lavoro tu gli riconosci la sua dignità. Ecco, vorrei che il ripercorrere quegli anni ci inducesse a capire che abbiamo bisogno di ritornare al valore del lavoro. Senza la nostalgia di tempi passati, ma con la capacità di far vivere nelle forme flessibili del lavoro di oggi, il valore del lavoro. E credo che su questo anche Romiti sarebbe d’accordo.

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