#Pci100anni. Il Monello e la Giraffa: ipotesi su un suicidio di massa

La retrotopia di una celebrazione senza futuro: fine del Partito comunista italiano.
MICHELE MEZZA
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È una domanda troppo eccentrica chiedersi come mai comunismo e cinema, più specificatamente Pci e Charlot abbiano avuto due storie così diverse e contraddittorie? Il punto di contatto è proprio quel fatidico e ora abusato centenario che cade il 21 gennaio. Esattamente quel giorno del 1921, qualche ora dopo che i delegati comunisti al canto dell’internazionale si erano spostati dal teatro Goldoni di Livorno nella sala senza sedie dello scalcagnato Teatro San Marco, per insediare il vertice del nuovo partito, a New York, nella scintillante cornice della Carnegie Hall, dinanzi a una platea fremente ed elegantissima, era proiettato per la prima volta il film Il Monello di Charlie Chaplin. 

Un trionfo per un capolavoro che rappresenta ancor oggi forse la migliore fusione emotiva fra sorrisi e lacrime in un racconto cinematografico. Qui già le piste dei due eventi si separano: Il Monello diventa il miglior testimonial di un nuovo cinema globale che si arricchirà, di volta in volta, di ogni cambiamento tecnico e culturale, diventando la lingua globale dei nostri sogni.

Quel manipolo di comunisti s’avventuravano sui sentieri della clandestinità a cui li condannava il regime fascista, per riemergere in una stagione gloriosa, con la resistenza e la ricostruzione del paese, per poi declinare irrimediabilmente alle prime avvisaglie di un cambio di scena del mondo del lavoro.

Charlot imparò a parlare e a usare colore ed effetti speciali, gli eredi di Togliatti non sono sopravvissuti all’automatizzazione delle fabbriche e soprattutto alla conquista della parola di ognuno dei propri sostenitori.

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Le emozioni nei cento anni che ci separano da quel 21 gennaio diventano mass media e organizzano i nostri comportamenti, parlando a platee continentali, perfino tramite la pandemia. 

Con più potenza ed efficacia di quella forza, e in alcuni casi della terribile violenza bellica, della politica, che pure aveva, con la rivoluzione russa di qualche anno prima, appena fatto tremare il mondo. La radio, la tv e ora la rete avrebbero domato gradualmente quei bollori.

La tenerezza del Monello che adotta l’orfanella, come racconta il grande Charlot, la possiamo considerare forse il segno dell’accelerazione di quel processo che avrebbe poi soppiantato completamente il linguaggio della politica facendo dire a Manuel Castells, il più completo analista della società contemporanea, nel suo primo tomo della trilogia sulla Società in rete (Bocconi editore, Milano 2004, pag 107):

Ciò che è cambiato non è il tipo di attività che impegna l’umanità ma la sua abilità tecnologica nell’impiegare come forza produttiva diretta ciò che contraddistingue la nostra specie come eccezione biologica: la sua superiore capacità di elaborare simboli.

Il bastoncino e la bombetta, con i baffetti inventati da Chaplin, sono l’immaginario del proprio tempo. Mentre la falce e il martello, con tutto il corredo di un partito organizzato è oggi modernariato.

Ragionare sulla fine del Pci, piuttosto che discettare sulle inadeguatezze dei gruppi dirigenti o sui rimpianti di generazioni di ferro e di fuoco, significa misurare le modalità in cui uno di quei due mondi, la lotta sociale che diventa assalto al cielo, viene completamento ingoiato dall’altro, la potenza tecnologica di immagini e parole che rendono ognuno di noi un autore, separatamente dagli altri.

Al centro della scena non più la grande contraddizione capitale lavoro, imprenditori e subalterni, proprietari e egualitari, ma la grande distinzione antropologica fra calcolanti e calcolati. 

Il 1989 infatti, ai fini di questa storia non è tanto l’anno della caduta del Muro di Berlino che così impressionò Achille Occhetto da farlo correre alla Bolognina per cancellare dalla sigla del suo partito il termine comunista, quanto invece la data della pubblicazione del codice del web che abilità miliardi di persone ad interferire con tutte le altre, secondo modalità e istruzioni impartite da pochi titolari delle piattaforme globali. I calcolanti. Di questo nessuno si curò. E gli effetti si vedono.

Diceva Roland Barthes, che nell’invenzione della fotografia, i chimici avevano avuto la meglio sui pittori. Ossia, l’innovazione tecnologica vede costantemente la forma dominare e condizionare il contenuto. Il calcolo prevalere sul testo.

È il medium il messaggio, intuiva genialmente già negli anni Sessanta Marshall McLuhan.

Questo passaggio si è realizzato spettacolarmente nella società digitale che ha prima emarginato e poi del tutto cancellato la funzione del lavoro come produttore di valore e di conseguenza, la variabile dell’antagonismo di classe, che il partito politico, volente o nolente, s’è trovato sempre ad organizzare, da una parte o dall’altra della barricata.

Diceva Engels che ogni volta che cambia la scienza doveva cambiare il materialismo dialettico, che guidava la politica. Mentre a parte qualche sigla e le sedi dei partiti che hanno ereditato lo spazio del Pci, per il resto sembra che davvero sia mutato poco in questi decenni.

Eppure qualcosina aveva anche detto su questo Carlo Marx, quando scriveva nel suo testo più digitale e meno letto, quale sono i Grundrisse che

Lo sfruttamento del lavoro vivo diverrà ben misera base per lo sviluppo generale della ricchezza.

12 novembre 1989. Achille Occhetto alla Bolognina

La caduta dell’Urss fu in questo un laboratorio a cielo aperto. Purtroppo fu interpretato solo a fini domestici per giustificare questa o quella tattica interna al perimetro nazionale dai dirigenti del Pci, che, seguendo l’andazzo globale, legarono il collasso sovietico a un’indifferenziata e non meglio fondata domanda di libertà. Ancora Manuel Castells ci spiega invece che quella catastrofe su l’effetto clamoroso dell’irriducibilità di un patto sociale fondato sul lavoro, come quello che comunque supporta il regime di Mosca rispetto alla frenetica corsa digitale che l’occidente aveva innescato

Io sostengo che la crisi montante che dalla metà degli anni Settanta in avanti scosse alle fondamenta l’economia e la società sovietiche fu l’espressione dell’incapacità strutturale dello statalismo e della variante sovietica dell’industrialismo di assicurare la transizione verso la società dell’informazione… Per industrialismo io intendo un modello di sviluppo in cui le fonti principali della produttività sono l’incremento quantitativo dei fattori di produzione (lavoro, capitale, e risorse naturali), uniti all’uso di nuove fonti di energia. Con il termine informazionalismo, invece, mi riferisco ad un modello di sviluppo in cui la fonte principale della produttività è la capacità qualitativa di ottimizzare la combinazione e l’impiego dei fattori di produzione sulla base della conoscenza e dell’informazione. L’avvento dell’informazionalismo è inseparabile da una nuova struttura sociale: la società in rete.

Un’analisi che è la vera orazione funebre per la scomparsa anche del Pci, altro che libertà. Mentre ancora oggi vedo scarse curiosità sulle ragioni sociali, sulle trasformazioni di contesto, che hanno portato ad un’estinzione globale del protagonismo di forze antagoniste nel panorama capitalista. Vedo più ossessive ricerche per l’aneddotica, o, ancora peggio, per una nostalgica rievocazione dei tempi che furono, che Zygmunt Bauman avrebbe definito retrotopia, culto del passato sostitutivo del futuro.

La dissoluzione di piattaforme politiche che prevedono cambi sostanziali nel sistema economico e sociale, quale è stato lo scioglimento del Pci all’indomani della caduta del Muro di Berlino, c’interroga sul senso che Francis Fukuyama oggi ci dice avesse realmente il suo famoso saggio sulla Fine della storia. La domanda era in realtà, ci aggiorna l’autore, sul Fine della storia.

Ci si chiedeva, cioè non come l’avventura politica dell’umanità si fosse conclusa, ma dove stessimo andando e con quali relazioni in un mondo in cui sembrava annientarsi ogni opzione alternativa al capitalismo occidentale.

 La Cina e l’Islam s’incaricarono, già poco dopo l’89, di dare una loro risposta, ora la pandemia ne aggiunge un’altra: nella cronicizzazione di una emergenza sanitaria il mercato si sospende e l’economia dipende dalle zecche delle istituzioni nazionali ed internazionali, con buona pace di ogni liberista.

In realtà, come dice Musil, “chi afferma che inizia una nuova era non sa in che era da tempo sta vivendo”. Intende che le trasformazioni non hanno mai un giorno e un’ora precisa per scattare, ma si annunciano con lunghi travagli storici. Così è stato per il virus, così fu per l’ondata digitale.

La crisi del Pci, che sbrigativamente ancora le vecchie correnti che attraversavano quel corpaccione politico continuano a datare ognuna in base agli errori dell’altra – i miglioristi l’addebitano a Berlinguer, la sinistra la mettono in conto a Napolitano – inizia molto, ma molto prima.

La certifica in maniera evidente proprio il suo massimo rappresentante, Enrico Berlinguer, in una storica intervista che un anno prima della sua scomparsa, avvenuta nel giugno del 1984, rilascia all’Unità, a un giovane Ferdinando Adornato sul tema dell’innovazione tecnologica, in cui il segretario comunista così si esprime su quanto gli sta accadendo ormai da tempo attorno :

Innanzitutto bisogna impadronirsi il più possibile della conoscenza di questi fenomeni. A tutti i livelli. Su questa base bisogna poi definire politiche adeguate a stimolare, orientare, controllare e condizionare le innovazioni in modo che non siano sacrificate esigenze vitali dei lavoratori e dei cittadini. Ma bisogna anche saper vedere i problemi che si pongono per la composizione sociale del partito. Credo che dobbiamo ormai considerare come un dato ineluttabile la progressiva diminuzione del peso specifico della classe operaia tradizionale. [… ] Alcuni traggono da ciò la conclusione che la classe operaia è morta e con essa muore la spinta principale alla trasformazione. Secondo me non è così. A condizione che si sappiano individuare e conquistare alla lotta per la trasformazione socialista altri strati della popolazione che assumono, anch’essi in forme nuove, la figura di lavoratori sfruttati come lavoratori intellettuali, i tecnici, i ricercatori. Sono anch’essi, come la classe operaia, una forza di trasformazione.

Le nuove figure sociali, i tecnici informatici, gli utenti dei nuovi personal computer, i giovani che si staccano dagli apparati centrali nell’informazione e nella scuola, sono “lavoratori sfruttati” che si devono collega alla classe operaia. Rimaniamo nel solco nell’alleanza fra lavoratori e intellettuali. Nulla sta realmente cambiando. Pochi mesi dopo Steve Jobs presenterà al mondo il nuovo Mackintosh 2 e inizierà l’epoca del digitale.

Siamo comunque all’epilogo di un passaggio che vede l’intera sinistra esorcizzare e ignorare quanto sta mutando.

La separazione fra progresso e sinistra si consuma ancora prima. Come ha riconosciuto in una sua intervista di qualche anno, fa pubblicata proprio da ytali. Aldo Tortorella, uno dei più longevi e lucidi superstiti del vertice di quel partito.

Siamo negli anni Sessanta, a miracolo economico dispiegato. 

Un paese che in poco tempo passa dalla rimozione delle macerie della guerra a primati industriali e tecnologici inimmaginabili. In un libro che ho pubblicato con Donzelli nel 2013 racconto quel tempo, Avevamo la luna, da cui traggo le citazioni che vi propongo.

Un momento magico.

Siamo il paese occidentale che fa paura alle sette sorelle del petrolio, con l’ENI di Mattei; inventiamo con Giulio Natta, che vincerà per questo il Nobel nel 1963, la plastica; mandiamo cinque satelliti nello spazio con l’agenzia del comandante Broglio; apriamo il primo gabinetto in Europa di genetica applicata con Adriano Buzzati-Traverso; il CNEN di Felice Ippolito collauda la prima centrale elettronucleare che apre la strada a una strategia energetica alternativa al petrolio stesso. Ma soprattutto siamo il paese dove in una valle sperduta del canavese un esoterico gruppo industriale, l’Olivetti, capeggiato da un’inedita figura di intellettuale d’azienda quale era Adriano, sperimenta il primo personal computer della storia, la mitica Programma 1010, spiegando che la potenza di calcolo sarà alla portata non più solo di stati o grandi corporation finanziare ma di ogni singolo produttore. Una vision prima ancora che un progetto industriale, destinata, qualche tempo dopo, non più di quindici anni, a mutare il corso del mondo.

Giulio Natta (1903-1979), ingegnere chimico, premio Nobel per la chimica insieme a Karl Ziegler per “le loro scoperte nel campo della chimica e della tecnologia dei polimeri”

In ormai celebre discorso che Adriano Olivetti pronuncia dinanzi al presidente della Repubblica dell’epoca, Giovanni Gronchi, l’8 novembre del 1959, siamo proprio all’avvio del miracolo economico, spiega

L’elettronica non solo ha reso possibile l’impiego dell’energia atomica e l’inizio dell’era spaziale, ma attraverso la moltiplicazione di sempre più complessi ed esatti apparati di automazione, sta avviando l’uomo verso una nuova condizione di libertà e di conquiste. Sottratto alla più faticosa routine, dotato di strumenti di previsione, di elaborazione e di ordinamento, prima inimmaginabili, il responsabile di qualsiasi attività tecnica, produttiva, scientifica, può ora proporsi nuove, amplissime prospettive. La conoscenza sicura, istantanea e praticamente illimitata dei dati, l’immediata elaborazione degli stessi, la verifica delle più varie e complesse ipotesi, consentono oggi di raggiungere obiettivi teorici e pratici che fino a ieri sarebbe stato assurdo proporsi, e di dirigere e reggere con visione netta e lontana le attività più diverse.

Ce n’era d’avanzo per capire che in quel ridotto storico rappresentato dalla prima parte degli anni Sessanta, già eravamo all’imboccatura di una fase che avrebbe completamente stravolto proprio quel campo, quale era il mondo della produzione industriale e dei servizi, su cui affondavano le radici i movimenti del lavoro e i partiti della sinistra operaia. Il Monello di Chaplin cominciava a aggirarsi attorno al Pci.

Invece la politica fece orecchie da mercante, e il Pci in particolare, che doveva per attitudine e interesse alzare le sue orecchie e prestare attenzione a quanto mutava a casa sua, rimosse completamente il tema delle trasformazioni sociali, bollandole con un dispregiativo del temo: sociologismi.

Si preferiva invece infilarsi in un dibattito tutto politicista sul centro sinistra, dove tatticamente il gruppo dirigente di Botteghe Oscure cercò di incastrare il Psi, prima come ufficiale di collegamento con la Dc e poi invece contestandogli la partecipazione al governo. Eppure la talpa bussava, e forte al portone del Bottegone.

Esattamente in quegli anni, fra il ‘60 e il ’62, si registrò un risveglio della conflittualità operaia, con i moti di Genova dei ragazzi con le magliette a strisce e, soprattutto, con i primi scioperi degli elettromeccanici a Torino e Milano, che, come spiegò in un’intervista rilasciata al sottoscritto, e pubblicata nel libro Avevamo la Luna da Antonio Pizzinato, già segretario generale della Cgil, e allora giovanissimo dirigente del nuovo sindacato metalmeccanico milanese,

fummo sorpresi dalla nuova struttura di classe operaia che saliva dalle compagne del sud verso il triangolo industriale. 

Una sorpresa che durò a lungo. 

Vittorio Foa nel suo libro di memorie Questo Novecento ( Einaudi, Torino 1993)così ricorda come nel 1963 venne messo in minoranza all’Alfa Romeo sul sabato libero da centinaia di giovanissimi nuovi operai, prevalentemente di origine meridionale

chiedevo di ridurre l’orario di lavoro ma sostenevo che non si doveva introdurre il sabato festivo che avrebbe alimentato il consumo di automobili e che invece bisognava dare spazio ai consumi culturali e civili e anche ad un meritato riposo…. Questa mia bella costruzione non fu solo bocciata dagli industriali meccanici o della gomma o delle costruzioni di autostrade, fu bocciata prima di tutto dai lavoratori. Essi volevano l’automobile e gli elettrodomestici, attrezzare le loro case e dare un nuovo senso ai tempi della loro vita. Essi capirono che questo non sarebbe stato solo possibile ad una minoranza privilegiata ( come credevo io ) ma era a portata di mano ormai della grande maggioranza.

Nei capannoni sta ormai covando un’altra contraddizione: si rigonfia la componente degli operai comuni (alla Fiat passano dal 44 per cento del ’57 al 66 per cento di dieci anni dopo).

Una presenza che ridimensiona l’aristocrazia operaia di vecchia militanza comunista, e di grande disciplina aziendale, e introduce insofferenze e ansie di vita, non più mediate dalla politica, che portano a ribellismo e irriducibilità ai ritmi di produzione e ai vincoli della catena.

Pizzinato nel colloquio che abbiamo citato ci descrive questa leva di operai che vogliono adeguare la fabbrica alle proprie esigenze, contrattando movimento per movimento, anche a costo di razionalizzare la produzione e di annebbiarne la missione demoniaca allo sfruttamento, come lamentava dal suo caldo studio Rodano. Era davvero uno strano operaio questo che andava ai picchetti e ai cortei con la Gazzetta dello Sport in tasca e due biglietti per il cinema alla sera. Si così manifestava quell’ansia di consumo e quella ibridazione sociale che l’uso dei nuovi prodromi del benessere innestava di cui proprio in quei mesi parlava il saggio sulla Affluent Society di John Kenneth Galbraith.

Un tema che l’istintiva sensibilità della Dc aveva già percepito, se non addirittura promosso.

Olivetti Tetractys, presentata nel 1956. Calcolatrice elettrica scrivente

Nel 1957, mentre si incubava la svolta di centrosinistra, e si agitavano le ansie dei settori più conservatori e reazionari della composita alleanza democristiana, si tenne un seminario promosso dalla componente fanfaniana sul tema del nuovo sviluppo industriale, in cui si ragionava, per rassicurare le forze clericali più allarmate dal progresso economico, su come trasformare i produttori in consumatori.

Relatore fu un giovanissimo Ettore Bernabei, che dopo qualche anno sarebbe stato l’architetto, come direttore generale della RAI, della prima offerta di comunicazione pubblicitaria, tramite Carosello, che avrebbe, come lui anticipò nella sua relazione del ’57, neutralizzato l’antagonismo sociale dei nuovi operai trasformandoli in solidi consumatori di massa

Quella fu la vera rivoluzione passiva che neutralizzò le riforme di struttura a cui ambivano i più determinati dirigenti socialisti, come Riccardo Lombardi, e deviò l’evoluzione naturale verso il socialismo che in qualche modo Togliatti accreditava nel suo partito. Le città settentrionali, investite da un poderoso processo di industrializzazione, dove almeno otto milioni di individui si spostarono dalle conservatrici e religiose campagne del sud alle irrequiete e laiche fabbriche del nord. Ma contemporaneamente, sotto lo sguardo attento delle tecnocrazie sociali cattoliche, si formò una massa di utenti di consumi modernizzanti: elettrodomestici, utilitarie, abbigliamento prêt-à-porter, prime vacanze prolungate. A guidare il pionerismo consumista una figura inedita, il giovane che sceglie da solo: in soli dieci anni dal ’53 al ’63 la vendita di dischi passa da cinque milioni di pezzi all’anno a 22 milioni, i jukebox passano da 4000 nel ’58 a quarantamila solo cinque anni dopo.

La risposta a Galbraith e a Bernabei venne per conto della cultura comunista da un accigliato Franco Rodano, uno dei caposcuola del filone del cattocomunismo, denso ed erudito cultore del marxismo antindustriale, custode della diversità comunista ante litteram, lo ritroveremo accanto all’austerità di Berlinguer quindici anni dopo, che intravede nella nuova tendenza sociale il pericolo per la funzione salvifica che il suo cristianesimo marxista attribuisce alla classe operaia e denuncia sul numero del giugno ’62 della sua Rivista Trimestrale con toni angosciati

la minaccia gravissima per non dire definitiva rappresentata dalla società opulenta (che rischia di far smarrire alla classe operaia) il sentimento cocente della sua condizione di sfruttamento.

Il Monello già comincia a innervosirsi. Ma siamo ancora alla primavera culturale comunista. 

Cinema a letteratura vanno a braccetto con il primato comunista. Sulle pagine di Rinascita vanno in scena i grandi dibattiti orientati e guidati dall’occhiuto Alicata, mentre il cinema diventa una nuova accademia globale, il mondo in quegli anni sogna in italiano. Ma cominciano le prime increspature dinanzi ad un’accelerazione del sistema che produce i primi disagi. Un segnale arriva da un apparentemente marginale querelle fra intellettuali, su un tema allora che appariva decisamente eccentrico come linguaggio e tecnologia. I due duellanti sono Pier Paolo Pasolini e Italo Calvino. A Pasolini che attaccava le deformazioni linguistiche, scrivendo

l’italiano finalmente è nato […] ma io non lo amo perché è “tecnologico”

Calvino rispondeva che

l’italiano rischia invece di morire, soffocato da una tradizione retorica deteriore e dalla tendenza all’antilingua. Ma l’italiano può sopravvivere se riesce a trasformarsi in lingua moderna, agile, ricca, liberamente costruttiva, robustamente centrata sui verbi, dotata d’una varia gamma di ritmi della frase. 

Il Mondo si è incaricato di rendere giustizia alle intuizioni di Calvino che invece non raccolse allora il plauso del Pci. L’anno della verità per il miracolo italiano diventa il 1962. Un anno davvero infinito.

Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini

Mentre a luglio la Rai inaugura il primo satellite di telecomunicazioni intercontinentale, Telestar, a ottobre va in scena, nel senso più letterale del termine, il Concilio Ecumenico Vaticano. 

Un grande palcoscenico dove brilla la stella di Papa Giovanni XXIII, il primo grande comunicatore globale. L’11 ottobre, affacciandosi alla finestra del suo studio, per quella che doveva essere una benedizione di routine della folla che voleva festeggiare l’apertura del Concilio, vedendo una grande Luna che quasi toccava Piazza San Pietro, il Pontefice improvvisò quello che rimane tutt’ora forse il più coinvolgente discorso che sia stato trasmesso dalla TV “il discorso alla Luna” quando tornerete a casa vedrete i vostri bambini, date loro una carezza e ditegli che la manda il Papa..

Davvero nulla era come prima. La luna di Gagarin e di Kennedy viene sovrastata dalla luna di Giovanni XXIII. Inizia la storia dei segni e dei sogni.

In Italia quella Luna illuminava il lavorìo per dare al paese un nuovo governo e una nuova stagione di riforme. Siamo nel pieno del primo governo di centro-sinistra, che vide la luce proprio nel 1962.

All’inizio del ’62 la balena democristiana aveva preso il largo, a Napoli, dove si celebrò il congresso nazionale del partito. 

Con Moro e Fanfani, i due cavalli di razza, si allestirono le convergenze parallele con un partito socialista sempre amleticamente lacerato dai dubbi e da ambizioni che diventavano precocemente velleità insostenibili. Ma prima che sul piano prettamente politico è sul terreno simbolico, culturale, civile, che la svolta ratificò un’altra Italia. Un’Italia più americana.

Un paese dove si sta diffondendo una inedita, e irriconoscibile per le categorie socio politiche del tempo, opulenza di massa, dove come abbiamo visto il consumo si propone come un vero motore sociale, dove le differenze individuali cominciano a riorganizzare i comportamenti più delle omologazioni di massa. Un paese ancora sbandato, scosso, sorpreso, ma anche affascinato e conquistato dal turbine che lo stava investendo. Un paese che non era giunto per caso alle soglie di uno sviluppo eccentrico, originale, dove il fordismo industriale che si affermava sembrava, con il prefigurarsi dei distretti industriali e delle aree tipiche, già occhieggiare al suo superamento, già indicare nuove tappe per collocare il made in Italy. Era quello il paese che stava incubando primati non conciliabili con la storia di una comunità ancora di recente provenienza rurale, dove indigenza e necessità dovevano guidare le decisioni. 

Invece, la pancia di questo paese ancora di recente memoria contadina e indigente, partorì una straordinaria congerie di geniali ed elegantissimi cultori delle belle forme. Anzi, come dice Richard Sennett nel suo saggio L’uomo Artigiano (Feltrinelli, Milano 2008),

si trova la forza di ricomporre l’armonia fra la testa e la mano che il capitalismo industriale del XIX secolo aveva frantumato.

Nasce la cultura e l’industria del design, e il bello diventa un prodotto prima, con la realizzazione di oggetti di linea, e un servizio poi, con la designerizzazione di ogni funzione, come gli stessi comportamenti urbani e professionali. Il filone è ovviamente alimentato, nella prima fase, quasi esclusivamente dall’Olivetti, che inizia a ingegnerizzare funzioni eleganti nei processi industriali. Nel 1957 la prima edizione del Compasso d’oro, un premio a cui guarderà tutto il mondo per capire come la bellezza può essere declinata nel ciclo industriale, viene attribuito a Lettera 22, la leggendaria macchina da scrivere progettata e realizzata a Ivrea con lo slogan: leggera come una sillaba, completa come una frase. Assolutamente geniale, un prodotto, un messaggio, un valore che si fondono e cercano una figura sociale alla quale rivolgersi. La trovano nelle nuove arti professionali che nel triangolo industriale cominciano a moltiplicarsi: commercialisti, avvocati, consulenti, progettisti, architetti, economisti, giornalisti, pubblicitari. Il lavoro diventa plurale e si mette in giacca e cravatta. Nel 1962 vince il Compasso d’Oro il modello Pitagora della macchina per il caffè Cimbali, insieme ai mobili da ufficio Olivetti e al mitico televisore Doney della Brionvega, disegnato da Marco Zanuso. Caffè, mobili, televisori: una triade poderosa che imporrà in tutto il mondo il made in Italy.

Brionvega Doney 14, disegnato da Marco Zanuso (1916-2001) e Richard Sapper (1932).

Sul versante economico i due cavalli di razza del miracolo italiano non bisognava cercarli alla Fiat di Valletta ma all’Eni di Mattei e all’Olivetti di Adriano, che muore nel ’60, lasciando comunque un’eredità programmata. I due campioni proprio nel passaggio fra gli anni Cinquanta e Sessanta vengono ignorati se non ostacolati dalla politica.

Le due esperienza di punta del sistema italiano vennero infatti lasciate sole, senza consensi ne coperture. Mattei che si era messo alla testa di una crociata che rischiava di scomporre i delicati equilibri geopolitici basati sul colonialismo petrolifero dell’occidente, non trovava supporto da quelle imprese che avrebbero potuto beneficiare di una bolletta energetica più conveniente e dell’entratura in nuovi mercati lontani. Bastava l’arricciamento di naso di qualche funzionario dell’ambasciata americana a far desistere i capitani delle grandi aziende italiane. L’isolamento di Mattei fu la premessa e la condizione della sua caduta e del suo rocambolesco “incidente” a Bescapè, nel ’62.

 L’Olivetti era guardata come un vero UFO, un’astronave che atterra in un campo di cipolle. Un gruppo industriale con un’aura quasi mistica, fondato da un socialista ottocentesco, come Camillo, e guidata poi da un profeta come Adriano. Un’impresa che aveva promosso soluzioni organizzative e sindacali autonome, con accordi separati rispetto alla rigida Confindustria; estendendole poi all’ambito culturale, con le edizioni Comunità, e infine arrivando a far maturare un’operazione politica che mirava al cuore del sistema dei partiti. Un comportamento assolutamente eretico e provocatorio sia per le componenti conservatrici del padronato sia per l’area della sinistra. Entrambe circondarono con un silenzio ostile l’azione del gruppo, ignorandone il progetto industriale e rimuovendo le proposte sociali. Un silenzio autolesionista, che comportava per le imprese e l’intellettualità di sinistra di ignorare l’esperienza più avanzata e promettente di neocapitalismo che stava crescendo proprio nel cortile di casa.

In questo scenario segnato da mille sorprese il Pci risolse i suoi pruriti con un convegno.

Discutere di neocapitalismo paventando l’inesistenza del fenomeno. Era questa la contraddittoria ambizione del convegno dell’Istituto Gramsci, nel marzo del 1962.

Ma come abbiamo visto, attorno alle analisi sulla fase macroeconomica, si giocava anche un’altra partita che investiva direttamente la politica del partito e perfino la sua direzione. L’avvento del centrosinistra come formula di governo, e non più come semplice tema di dibattito, rendeva il tutto più avventuroso: come avrebbe reagito il corpo del partito, le sue componenti sindacali, il suo radicamento sociale, le sue ramificazioni nel ceto medio produttivo e intellettuale ad una vera stagione di riforme? Questa era la domanda che rimaneva sotto pelle, e che portava il gruppo dirigente comunista, sollecitato negli anni precedenti da scosse sismiche che avevano avuto il proprio epicentro nello stesso Cremlino, a interrogarsi sull’adeguatezza della linea post resistenziale, incarnata da Palmiro Togliatti. 

Finché il quadro socio economico del paese rimaneva segnato da un profilo di sottosviluppo, con larghe sacche di emarginazione e nucleo coriacei di classe operaia, la rotta non poteva che rimanere quella storicamente tracciata e condotta da Il Migliore. Ma se, come era percepibile in aree dell’occidente, come gli Usa, ma anche le adiacenti Francia e Germania, si sarebbe stati accerchiati da una mobilitazione di forze produttive che trovano sbocchi di mercati e attivazione di consumi innovativi, con l’insorgere di nuove figure sociali e il rigonfiarsi di ceti dinamici e moderni, come si sarebbe dovuta riconfigurare l’identità comunista? Sullo sfondo di questi interrogativi, in una sede, come abbiamo visto meno formale e rigida politicamente, quale era un istituto di ricerca, si confrontarono le opzioni che covavano nella pancia del partito. 

Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Lucio Magri

Iniziava, con il convegno del ’62, una fase che si sarebbe poi conclusa con l’XII° congresso del ’69 a Bologna, che vide l’esclusione concettuale, prima, e disciplinare, poi, del gruppo de Il Manifesto guidato da quel Lucio Magri che ritroveremo in prima fila nell’ultimo tentativo di aggiornare la genetica culturale del PCI. Con la significativa tappa intermedia dell’XI del ’66, il primo senza Togliatti, dove lo scontro tra Amendola e Ingrao si concluse a scapito del secondo, e che Rossana Rossanda nel suo libro di memorie già citato La Ragazza del Secolo scorso, definirà come “l’ultima stagione in cui la storia sembrava ancora camminare al nostro fianco”.

E in quel marzo del ’62 la storia era ancora saldamente accanto al più grande e innovativo dei partiti comunisti. I consensi, nonostante le diaspore della fine degli anni Cinquanta, reggevano e mostravano segni incoraggianti persino di ulteriore espansione. Il prestigio culturale del partito rimaneva rilevante, così il richiamo per l’intellettualità più affermata del paese. Il seguito nel mondo del lavoro, con la transizione dalle campagne alle fabbriche del baricentro produttivo del paese, si era ulteriormente incrementato. Complessivamente uno stato di salute che per le condizioni date, essere ciò è comunque identificato con il blocco geopolitico avverso, più che positivo. Eppure l’irrequietezza cresceva. Proprio la rappresentatività del partito, la sua sensibilità sociale, il suo radicamento nel paese, trasmetteva segnali di incertezza. Molto stava cambiando e molto rapidamente. Forse troppo. Bisognava capire quale fosse la tendenza e adeguare strumenti e contenuti dell’azione politica.

Il mandato che Giorgio Amendola, in un enigmatico silenzio di Togliatti, affida all’iniziativa è assolutamente indiscutibile: confermare il carattere sostanzialmente locale dello sviluppo italiano, che non veniva mutato nella direzione e nella qualità da processi globali (vedi ENI, Olivetti, consumi urbani), di conseguenza non era necessario mutare la strategia politica della via nazionale al socialismo. Una visione che poggiava sull’immobilismo e la ghettizzazione localistica del capitalismo italiano, in un quadro, invece, che come abbiamo visto, presentava una profonda trasformazione in atto. Sullo sfondo, come confine appena tollerato, rimanevano le nuove realtà dell’organizzazione del lavoro nel triangolo industriale, dove si ammetteva, ma solo come sperimentazione focalizzata in quella ristretta area geografica, un’articolazione della contrattazione aziendale che portava alla ribalta le rivendicazioni quotidiane da parte dei lavoratori.

Il convegno, indispettendo visibilmente Amendola, prende un’altra piega. 

A cominciare dalla documentatissima relazione di un giovanissimo Bruno Trentin, che come responsabile dell’Ufficio Studi della Cgil, aveva avuto, anche grazie a una permanenza negli Stati Uniti, il privilegio di osservare da vicino quanto proponeva la realtà economica americana. Si apriva così, per la prima volta, la finestra a ovest. 

Trentin introduce con forza il tema di un neocapitalismo originale, non riducibile al solito gioco dei gruppi monopolisti e speculativi. Un neo capitalismo che non coincide con la notte dove tutte le vacche erano nere di Amendola. Lo scenario della nuova fabbrica si anima di figure dinamiche, autonome, non legate a una dipendenza diretta dalla macchina del profitto: manager, tecnici, intellettuali della produzione. Un mercato dove, accanto ai grandi gruppi multinazionali, fiorisce un tessuto a maglie strette di piccole e medie aziende di centri professionali, di agenzie di servizi che rendono pluralistico il potere economico. Trentin bilancia la sua analisi, che accredita una nuova marca di capitalismo articolato, ben distinta dal tradizionale modello monolitico e pauperistico, che i manuali comunisti rimandavano, con attacchi alle punte più estreme della cultura sociologica di matrice americana, come l’idea di comunità di fabbrica di Franco Ferrarotti e l’idea del protagonismo dei consumatori, come nuovo motore sociale di Franco Modigliani. Ma tiene ferma la barra del suo ragionamento sulle nuove opportunità che il fenomeno di sviluppo tecno sociale profila. La sua descrizione della realtà culturale della sociologia americana, assolutamente sconosciuta in Italia allora, e tuttora scarsamente frequentata, tanto più nella sua accezione digitale.

John Diebold, Friedrich Pollock, Peter Drucker, fino a John K. Galbraith entravano così, per la prima volta, nel dibattito del Pci. In uno dei passaggi più preveggenti della sua relazione Trentin, siamo nel 1962, ricordiamo, afferma:

la frantumazione del capitale azionario che in molti casi accompagnava la crescita delle grandi corporazioni industriali, le loro crescenti capacità di autofinanziamento, sino al rovesciamento dei rapporti di subordinazione fra banca e industria che erano tipici di molti settori dell’economia americana, l’affermazione di un ceto di dirigenti industriali più o meno distinto dai possessori di azioni, diventavano infatti la base oggettiva per il sopravvento dell’engineering economics sul business economics. [Tendenze del capitalismo italiano, atti del convegno economico dell’Istituto Gramsci, Editori Riuniti, Roma, 1962].

Subito dopo, Trentin diventa ancora più esplicito, definendo un contesto teorico che sembra fatto apposta per entrare in relazione con quanto sta maturando a Ivrea:

Quest’ideologia (il neocapitalismo) manifesta però anche un’altra tendenza: quella che ricerca l’emancipazione delle forze produttive dall’egemonia del capitale, quella che insegue sia pure attraverso una concezione “mistificatoria” del profitto l’autonomia della tecnica e del progresso sociale dall’ipoteca capitalista. In questo senso l’ideologia neo capitalista coglie ed esprime insieme la contraddizione fondamentale dello sviluppo capitalistico:quella che esiste fra lo sviluppo delle forze produttive e la natura dei rapporti di produzione.

Bruno Trentin e Giuseppe Di Vittorio

Siamo completamente fuori dal solco nell’ortodossia non solo amendoliana ma anche togliattiana. Il Pci, per la prima ed unica volta, guarda a ovest invece che a est, se si propone come organizzatore del conflitto nel punto alto del capitalismo e non nei suoi retaggi più arretrati da razionalizzare. Soprattutto si cominciano a percepire forze e categorie destinate a mutare radicalmente il meccanismo di accumulazione industriale.

Appaiono, infatti, in questo spezzone della relazione di Trentin concetti come autonomia della tecnica e sviluppo economico separato da una logica predatoria del mercato. La notte nera si sta schiarendo, senza per altro appiattire le ragioni di un conflitto sociale ulteriore. Trentin completa il suo rigoroso ragionamento indicando una prospettiva, e un pericolo per l’immobilismo del partito: le nuove forme di pluralismo dell’innovazione hanno già trovato nel cattolicesimo sociale un mediatore politico, che rischia di spiazzare la sinistra. Sia sul terreno politico, e qui il richiamo va all’incipiente centrosinistra e alla stagione dei convegni di San Pellegrino della sinistra democristiana, e sia su quello sindacale, dove s’avverte il crescere di una nuova generazione di quadri cislini che proprio perché meno subalterni alla gerarchia ecclesiale e alle correnti democristiane più moderate, risulteranno più insidiosi nella competizione in fabbrica. 

Manca solo l’Olivetti nella scaletta di Trentin.

Un buco concettuale, che segnala un’assoluta rimozione che in quella fase opera la sinistra, persino nelle componenti più acute e consapevoli. Prevaleva il timore di una formula, la cogestione o comunque un localismo comunitario, che appannava la cultura classista e colpiva al cuore la rappresentatività del partito. I due totem su cui non si poteva discutere, nemmeno quando ci si confrontava in inglese.

Eppure il futuro segretario della Cgil aveva sfidato ben altri miti. 

Contaminarsi con le categorie della sociologia d’impresa, maneggiare figure professionali, come il management e gli alti livelli ingegneristici, per valutarne la compatibilità a politiche di democratizzazione del ciclo produttivo, riconoscere lo stadio più avanzato di confronto che il neocapitalismo d’impronta americana proponeva, erano azioni concettualmente temerarie, che intaccavano dogmi inviolati. Ma tutto aveva un limite, accettare un interlocutore eterodosso, ma lontano come erano i teorici dell’innovazione aziendale americana era una cosa, confrontarsi con le ambizioni culturali e politiche di un gruppo industriale di stanza in una valle piemontese era ben altra. E di gran lunga più compromettente. Quella fu la grande occasione perduta, per entrambi i possibili interlocutori. Lo strappo di Trentin era consistente e non mediabile. Il re è nudo, era stato in qualche modo gridato. E non solo dal relatore. 

Dopo Trentin una fila di interventi, altrettanto spregiudicati e eterodossi, allargarono Valentino Parlato, Luciano Barca, Rodolfo Banfi. Ma fu con più lucidità il vero debutto di Lucio Magri, un brillantissimo giovane dirigente ex democristiano di Bergamo approdato da poco nelle file comuniste, a rendere più esplicita ed eversiva la riflessione. Prolungando il ragionamento di Trentin, Magri affronta proprio il tema del nuovo cattolicesimo sociale e di quali basi di massa possa contare in alternativa al peso del movimento operaio Paradossalmente, commentando il proprio intervento nel libro Il Sarto di Ulm, Magri si autocritica per un’eccessiva semplificazione della sua argomentazione, che gli sembrava enfatizzare la centralità del consumismo individuale inteso come un nuovo ordinatore sociale, un nuovo valore che avrebbe riorganizzato le relazioni e i rapporti fra i diversi ceti produttivi.

Valentino Parlato

In un saggio che scrisse successivamente sulla rivista di Sartre Tempi Moderni, ebbe modo e agio per meglio dispiegare le sue ragioni, e precisò che

il consumismo non era il prodotto di una spinta culturale, ma del modo di produzione, dell’uso capitalistico dei grandi strumenti di comunicazione di massa, e soprattutto della parcellizzazione e dell’alienazione del lavoro.

In realtà proprio quell’aspetto del suo intervento, che ricavava da una lettura più puntuale di Galbraith, riveste oggi un carattere di assoluta prefigurazione. Valorizzato dalla precisazione successiva, con il suo riferimento alla relazione fra consumismo individuale e sistema dei media s’intravvede come una cultura comunista, solo meno paludata e cardinalizia avrebbe potuto anche allora cogliere i nuovi sussulti di un capitalismo che stava compiendo l’ennesima acrobazia trasformatrice.

È proprio il consumismo individuale che ha dato un radicamento sociale alla filiera tecnologica basata sulla miniaturizzazione della potenza di calcolo. Rendendo il pionierismo di Olivetti l’evangelizzazione di Steve Jobs.

Magri ne paventava lo sviluppo come alimentazione di un possibile riformismo neoborghese mediato proprio dalle nuove forme del cattolicesimo democratico, in chiave anti operaia. 

In realtà fu proprio il neocapitalismo tecnologico ad assumere la rappresentatività del fenomeno smaterializzando la società di massa, e indirizzandone il vitalismo verso le nuove forme di un’economia della comunicazione a rete.

Anche in questo caso forse uno sguardo a cosa stava maturando nei laboratori dell’Olivetti, con le prime sperimentazioni di Tchou e, poi, di Perotti, di concentrare la potenza di poderosi calcolatori nello spazio di beauty case, per essere disponibili a un uso individuale, a un marxista avrebbe consigliato un’analisi più approfondita delle domande sociali che stavano affiorando dalle viscere della società. Purtroppo, come ben sappiamo, nessuno lanciò quello sguardo, e i due mondi – la vitalità innovativa dei laboratori Olivetti, da una parte, le intelligenze eterodosse delle componenti più lucide della sinistra italiana, la più lucida, allora, fra le sinistre europee – rimasero separati e non comunicanti.

Sia Trentin sia Magri, infatti, anche in occasione di scritti impegnati sulla propria storia politica, che attraversarono le vicende degli anni che qui raccontiamo, mostrano di non attribuire eccessivo valore non solo agli eventi in sé, ma neanche ai contributi dati da loro stessi. In varie occasioni Bruno Trentin, ritornando a quegli anni mostrava di non volersi soffermare sulla sua relazione al convegno dell’Istituto Gramsci. Magri nel suo libro storico, che abbiamo citato più volte, Il sarto di Ulm, dedica a quella situazione non più di una pagina e mezza. Perché quella sottovalutazione? Eppure, proprio quei loro contributi rivestono oggi un valore particolare, sia sul terreno storico, fornendo materiali di valore esclusivo, per ricostruire il clima politico culturale di quel passaggio; e sia sul terreno delle stesse argomentazioni, che a distanza di cinquant’anni, ancora possono fornire indicazioni importanti di metodo e di elaborazione.

Perché allora tanto silenzio? Non certo per modestia, o per ritrosia. Il silenzio di Magri e Trentin è connesso al silenzio più ampio che grava oggi sull’intera materia dei pervasivi processi d’innovazione tecnologica. È l’effetto di un imbarazzo, di un impaccio a entrare in un labirinto da cui si teme di non uscire, almeno di non poterlo fare nelle stesse condizioni e tutele con le quali si entra. In particolare per Trentin e Magri forse è anche il risultato di una reazione feroce che li colpì al termine di quella sessione di discussione. Già le conclusioni di Amendola annunciavano tempesta. Durissima fu la polemica diretta contro le posizioni di Magri, il più giovane e sguarnito fra coloro che intervennero, su cui poteva esercitarsi senza remora, l’autorità vendicativa del prestigioso dirigente del Pci.

Ma la polemica contro Magri arrivò ad ammonire tutti gli eterodossi. Non è ammissibile, fece intendere Amendola, baloccarsi con le suggestioni di un neocapitalismo immaginario, mentre il paese era ancora oppresso da miseria e disoccupazione. Il rischio era di deviare la vera lotta di classe. Bastava molto meno allora per bruciare una carriera politica. La saracinesca amendoliana chiuse ogni spiraglio. Magri e Trentin ne uscirono, con conseguenze inversamente proporzionali al grado che avevano, seriamente ammaccati.

Certo è che dopo di allora nessuno riprese, con quella spregiudicatezza e respiro quel filo di ricerca che andava ben oltre il perimetro della fabbrica. 

Adriano Olivetti (a sinistra, nella foto, Franco Ferrarotti)

Franco Ferrarotti fu un dei più intimi collaboratori di Adriano Olivetti e, sullo slancio di quell’esperienza divenne il padre della sociologia italiana. Così spiega, nell’intervista rilasciato sempre ad Avevamo la Luna, l’esorcizzazione del Pci del caso Olivetti anche da parte dei più avvertiti dirigenti del partito:

il convegno del Gramsci fu uno dei pochi momenti, forse l’unico in cui ci avvicinammo come politica italiana ad afferrare il senso del neo capitalismo. Pensi che in quel tempo, noi come gruppo Olivetti, ed io in particolare come rappresentante dell’esperienza della comunità di fabbrica, fummo accusati di essere un cavallo di troia dei padroni, un sindacato giallo. In particolare contro di noi si accaniva il sindacato di fabbrica della Cgil. Ma anche la CISL ci attaccava violentemente. L’unica voce che a sinistra si alzò a difenderci, o almeno a confrontarsi con noi, fu incredibilmente, Di Vittorio, il bracciante di Cerignola, che con un articolo sul Lavoro il periodico nazionale della Cgil critica gli attacchi che venivano rivolti a me personalmente da Il Tasto il settimanale della cellula aziendale del sindacato di sinistra. Di Vittorio spiegava che nelle nostre posizioni c’era del vero, e che la grande Cgil stava peccando di massimalismo e settarismo. Dobbiamo capire cosa pensano, ammoniva. Il punto riguardava da una parte le nuove logiche del capitalismo tecnologico, le nuove figure sociali che formava e le nuove relazioni che rendeva possibile, dall’altro il vecchio tema della partecipazione operaia, che sollevai con Adriano nel nostro primo incontro. Proprio alla fine degli anni Cinquanta io pubblicati allora il primo libro sul tema “ La Parola Operaia” che chiedeva al sindacato di parlare e capire i bisogni reali dei lavoratori. Si trattava di mutare approccio, di osservare e censire direttamente i bisogni dei lavoratori, e non desumerli ideologicamente.

Ma il senso di quel fallimento che segnerà il destino di un intero filone politico è qualcosa che va oltre la capacità di un gruppo dirigente. Riguarda le categorie culturali e politiche capaci di afferrare il cambiamento. Ancora Ferrarotti ci da una spiegazione che coglie in maniera meno futile le ragioni di quella scomparsa:

Il peccato originale era tutto interno al dna della sinistra.
L’origine era proprio la tradizione comunista e in particolare uno dei suoi principali aedi, come fu Georg Lukacs, che io ebbi la fortuna di intervistare poco prima della sua morte a Budapest.
Lui mi disse, papale papale, che la sociologia era stata una tipica deviazione borghese per obnubilare il marxismo, e sostituire la rivoluzione frontale con un’evoluzione graduale. Incombeva il famoso Diamat, il materialismo dialettico di matrice stalinista, che non ammetteva deroghe. Per questo ci trovammo ad essere due separati in casa. Questo epilogo io lo vivo come un mio personale fallimento. Il risultato di una mia incapacità nel non aver saputo aggirare questa pregiudiziale ideologica. Tutt’ora l’impostazione scientifico sociologica sperimentale, attenta alle situazioni di fatto è ancora estranea e non solo in Italia. Lo storicismo è ancora dilagante. Come insegna Croce, la storia, di per sé, ha una sua intelligenza interna e basta seguirla. Croce dice che ogni fatto negativo comunque spinge in senso positivo il corso della vita. Lo stesso fascismo veniva considerato una semplice parentesi. Mentre è proprio quando il fascismo cadde che cominciò a contaminare la base del paese. Una vera follia. La nostra incapacità di cogliere la discontinuità metodologica che ci propone la sociologia ci rende ancora misterioso il mondo socio tecnologico della rete.

Se, come c’insegna Tim Berners-Lee, il padre del web, Internet non è un’innovazione tecnologica ma sociale, allora la politica, persino quella conflittuale e antagonista, può riacquisire il centro della scena e abbandonare timidezza, estraneità e diffidenze, percependo la rete come il nuovo ambiente del conflitto e della rappresentanza degli interessi. Lungo quel crinale che dal convegno del Gramsci del ’62 fino all’autunno caldo degli anni Settanta, per arrivare all’avvento di forme del tutto innovative di produrre ricchezza mediante la comunicazione, la ricostruzione di un soggetto politico capace di declinare partecipazione e decisione, libertà e innovazione diventa ancora più urgente e necessario. Partendo dalla constatazione che, come diceva Lord Keynes: “quando cambiano i fatti io cambio idea, perché lei cosa fa?”

Cosa ha fatto la sinistra?

#Pci100anni. Il Monello e la Giraffa: ipotesi su un suicidio di massa ultima modifica: 2021-01-21T15:35:13+01:00 da MICHELE MEZZA
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