Il tele vedere cambia la natura umana? Questo si chiedeva argutamente Giovanni Sartori, il grande scienziato politico italiano che insegnò a lungo negli Stati Uniti, nel suo pamphlet Homo Videns. Solo la data di pubblicazione del libro del politologo, eravamo nel 2007, molte ere multimediali fa, lascia una dignità intellettuale al quesito di Sartori. Oggi dovremmo rispondere alla domanda irridente del grande scienziato della politica con un sonoro, quanto scontato, “sì”. Il cosa si vede, e soprattutto come si vede, tanto più se insieme a vedere integriamo l’offerta audiovisuale con nostri contributi e commenti, allora dobbiamo convenire che l’utenza di flussi televisivi muta radicalmente identità, fisionomie e profili sociali.
Ce lo conferma il report su media e pandemia di Mediobanca. Intanto già la cosa che il principale osservatore dei mercati finanziari nazionale si occupi specificatamente di consumi multimediali ci dice che qualcosa di rilevante è mutato nella composizione dei sistemi economici e delle modalità di analisi delle tendenze. Se poi andiamo a disgregare la poderosa mole di dati scorgiamo fenomeni e processi che ci danno ragione di quanto sta accadendo nella superficie politico istituzionale, a partire dallo stesso progetto di governo Draghi.
Lo scenario che si scorge nelle pagine del report è quello di una frenetica differenziazione dei comportamenti e delle identità sociali. Più che un’ulteriore spinta all’individualizzazione, quello che mi pare emerge è proprio un forte processo di separazione di ognuno dagli altri, secondo appunto una linea di differenza. Vince e domina la voglia di essere diverso, magari persino peggio, ma non eguale. L’istinto che sta performando il mercato audiovisivo, e che indica le mappe dei profili sociali dominanti, chiede di essere diverso, di mangiare diversamente, di vedere e interpretare circostanze e situazioni diverse, in orari e con stili assolutamente irriducibili a quelli di una presunta media.
Questa ansia di diversità, che di volta in volta, diventa ambizione, edonismo, narcisismo, competizione o semplicemente separazione dal gregge, è la valanga che ha seppellito la sinistra egualitaria, o ancora peggio, la sinistra delle élite, che chiedeva egualitarismo per gli altri.
Leggendo i dati del mercato multimediale questa tendenza appare evidente. Gli abbonamenti individuali alle piattaforme streaming prevalgono sul botteghino degli eventi di massa. Nel 2019, prima della pandemia, li avevano raggiunto, nei prossimi anni, diciamo entro il 2024, dopo , auspicabilmente, la fase acuta del distanziamento sociale, si prevede che mentre il botteghino tornerà ai livelli pre Covid 19, gli abbonamenti alle piattaforme schizzeranno oltre un incremento del 400 per cento.
Il grafo complessivo di questo processo vede a valle una forte concentrazione delle produzioni, con sedici gruppi globali, in larga maggioranza nord americani, che realizzano pressoché la totalità di quello che vediamo. Centrali sono poi le piattaforme degli OTT, guidate da Netflix, che ha superato i duecento milioni di abbonati con un fatturato di 18 miliardi di dollari. Mentre nel 2019, abbiamo visto una generale impennata di tutti i tipi di piattaforme, da quelle satellitari a quelle in streaming, nell’anno della pandemia, i destini si separano: le prime, tipo Netflix, esplodono ulteriormente, mentre flettono le piattaforme satellitari tipo Sky.
In sostanza, più il sistema permette una visione autonoma, asincrona e assolutamente aderente al desiderio del momento più viene premiata, mentre più l’offerta è rigida, anche se in misura del tutto marginale, come appunto Sky, più viene penalizzata. Emblema di questa tendenza è il nuovo telecomando targettizzato, con cui si può accedere direttamente alle singole piattaforme – Amazon, Chili e naturalmente Netflix, o persino Rai Play – scavalcando il gatekeeping delle piattaforme satellitari che avevano cercato di tenere in ostaggio i nuovi utenti proponendogli accessi agevolati alle nuove offerte personalizzate. Ma si annunciano ulteriori cambiamenti, con telecomandi che ti porteranno direttamente al singolo programma di successo, come la serie alla moda, o il reality del momento, o il genere più ricercato, sia esso musica o news.

La frammentazione procede, rispondendo alla domanda sociale invece che causarla, come la rete ci ha insegnato. La tecnologia è sempre una risposta, mai la ragione di un cambiamento. Sessant’anni fa Marshall McLuhan aveva intuito questa relazione scrivendo che il senso di un medium o di una tecnologia sta proprio nella mutazione di ritmo, di proporzione e di schemi che introduce nei rapporti umani. Oggi sembra che la società sia più veloce delle tecnologie, ed è proprio il cambiamento sociale che trascina l’evoluzione tecnologica. E la molla di questa velocità sociale è proprio la separazione dell’individuo dalla massa. Una separazione che inizia molto tempo fa, con le prime forme di consumo identitario. Ma che accelera e diventa potenza sociale proprio nel mitico Sessantotto, celebrato come un’orgia di massimo mentre si rivelò un gigantesco palcoscenico della voglia di apparire.
Il suo massimo teorico, che ispiro lo stesso Marcuse e guidò le avanguardie dei giovani americani che si ritrovarono nel ’62 a Port Huron e poi nel ’64 davanti ai cancelli di Berkeley ad ascoltare il free speech di Mario Savio, Alexander Kojeve, un geniale quanto mistico filosofo che muore proprio nel ’68, lasciandoci un patrimonio per molti versi ancora insondato.
Kojeve fu il teorico del tymos, come molla sociale della modernità, quell’intreccio fra desiderio e identità che portò alla ribalta in tutto il mondo camuffandola in un simulacro di egualitarismo la potenza di esibizione del talento individuale che ognuno di noi mette sulla scena.
Questa talpa scava per mezzo secolo, disgregando ogni cultura di massa, slabbrando ogni valore collettivo, biodegradando ogni esperienza comunitaria. Prima come motore di un protagonismo che rottama ogni vecchia gerarchia della società del Novecento, poi come riflusso intimista che spazza via ogni infrastruttura politica e culturale di una società omologata, infine come spirito animale di un’intraprendenza che fuoriesce da ogni corsia produttiva e industriale per dare libero sfogo all’economia della comunicazione che rende ogni singolo nodo della rete umana un hub di raccolta e smistamento dati.
Siamo al nuovo millennio, con una società reticolare che disintermedia autorità ed élite e costringe a sudare per governarla. Solo la potenza di calcolo avvolge ed assorbe il tymos, dandogli strumenti accessibili ed amichevoli con cui segnalarsi al mondo. In cambio esige totale sottomissione a linguaggi e dominii. I media sono subito scompigliati nella sua identità e tradizione. E da puri vettori di messaggi diventano macchine di produzione e selezionano figure professionali e interessi di nuove classi senza partito ne sindacato. La piattaforme danno identità e appartenenza a questo sciame. E oggi Draghi, come archetipo di un esperto senza politica, gli proporrà una forma di governo, dove le competenze saranno pretesto per le relazioni, e i saperi conseguenza degli interessi. L’uomo è quello che vede più che quello che mangia, potremmo dire. Ma l’uomo è anche quello che calcola ed è calcolato.
Si delinea così un nuovo fronte di conflitto, che potrebbe ridare calore e colore allo scenario al neon del click di Netflix. La potenza degli algoritmi come unico interfaccia con il mondo rimanda a quel complesso industriale e scientifico contro cui, proprio all’inizio degli anni Sessanta iniziò questa storia. E forse da allora sopravvive nella generazione che passò dal free speech al free soft un istinto conflittuale che vuole, per il desiderio di non essere solo subalterni, riaprire la partita del potere. Usando quelle piattaforme e quei data base per ricomporre quello che il mercato divide. Forse.

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