Festival di Sanremo. L’Italia della porta accanto

Una serata di musica popolare. Le canzonette stanno con noi più di quanto noi stiamo con loro. E non è poco.
LUCIO FAVARETTO
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Mi ricordo. Nella provincia delle provincie ricordo tante case. Nel mese in cui l’inverno continuava, era strano rimanere alzati dopo le nove di sera. La gente aveva ciarlato durante il pomeriggio per decidere il da farsi.
“A casa tua?” “Si può fare, ma ci sono anche le mie sorelle con i loro mariti”. “E la Pina, hai sentito la Pina?” “Stasera arriva tardi dal lavoro, devono finire una specie di inventario al negozio; ma mi ha detto che una volta finito viene direttamente da noi”. “Bisognerà lasciarle qualcosa da mangiare, sarà stanca, è da stamattina che è sotto”. “Hai sentito Antonietta?” “Devo chiedere a mia figlia. Ora si sente grande – sai com’è, ha diciassette anni – è lei che decide dove vederlo, sicuramente si sarà messa d’accordo con tua figlia”.

Il Casinò di Sanremo, sede del Festival dal 1951 al 1976

 

“Ah, io vado mezzora al circolo…guarda che scenografia…sembra un Luna Park, guarda che razza di archibugi per far cantare un po’ di gente. Sembra progettato dai carcerati” diceva mio padre, con grande disprezzo per l’evento che, soprattutto le donne, si stavano preparando a vedere. In fondo non gli pareva vero uscire in pieno inverno e andare a discutere e giocare a carte nella sede dell’allora PCI.

Era dalla fine dell’estate che non si andava a letto così tardi. Coricarsi dopo le dieci di sera era appannaggio delle grandi feste e delle serate estive. A me piaceva l’idea di qualcosa di diverso da fare con le famiglie e i vicini. Mi piaceva aspettare, anche se dopo che mi avevano fatto il bagno e avevo mangiato cercavo di nascondere il sonno che mi veniva. Quanto sonno!

Il soggiorno era pieno di gente. Le amiche di mia sorella, i parenti dei miei, i vicini. Mia madre, e questo lo ricordo, mi prendeva in un angolo e mi diceva “stasera non correre in giro per la casa che abbiamo ospiti. Te ne stai buono e tranquillo altrimenti ti mettiamo a letto”.

Il Teatro Ariston di Sanremo, sede del Festival dal 1977 al 1989 e dal 1991, durante l’edizione 2013

C’era la sigla dell’Eurovisione. Io non riuscivo a tacere e per poter parlare facevo domande. “Mamma perché c’è questa sigla?” “Perché lo fanno vedere in tutta Europa”. “Anche in Francia?” “Sì anche in Francia” “E in Inghilterra? Abbiamo visto oggi l’Inghilterra con la Maestra” “Sì, anche in Inghilterra, ma adesso stai quieto che dobbiamo guardare”.

Sul video sbiadito tremava il cartello della diffusione europea del programma. Partiva un lungo applauso e una voce, mi pare fosse Mike Bongiorno, diceva “Dal Salone delle feste del Casinò di Sanremo, siamo onorati di presentare il trentesimo (circa) Festival della Canzone Italiana”. E giù applausi con lo schermo che si riempiva di pellicce.
La visione aveva qualcosa di molto ordinato. Potevano esserci i commenti, le risposte ai commenti, purché brevi, purché non coprissero le canzoni.

“Di Tempera, Aureli, Pregadio …. Il brano si intitola…canta ora…. Dirige l’orchestra il Maestro Pregadio. “
Mi ricordo il cognome di quel Maestro.

Nessuno portava le cuffie che si mettono adesso, e i cantanti rivolgevano una mano all’orecchio per attutire i volumi dei suoni e intonarsi. “Ti ho detto che è mancino” sussurrava la Signora della porta accanto. Cantavano un po’ peggio che nei dischi. I dischi li avremmo sentiti nei giorni successivi alla gara. Erano più belle, le canzoni di Sanremo nei dischi. Le voci erano più belle. Alcuni di loro, sul palco, mi sembravano un po’ stonati, ma non si poteva dire. Durante quella sera i divieti erano incessanti. Io provai a dirlo di una cantante famosa. “Mi sembra un po’ stonata questa quando urla”. Mi arrivava un coro di “Shh, zitto!!!”. E venivo messa a tacere. Se provavo a fare un altro commento si preannunciavano conseguenze fascio- staliniste: “guarda che ti mando di là”. L’andare “di là” era la promessa di una punizione e in quel caso la più terribile. Mamme per la prima volta indifferenti ai bambini, tutte prese dai cantanti famosi, e figli sempre sul punto di essere abbandonati in camera da letto. Mentre tutti sembravano attenti come in un rito sacro. O stavamo zitti, o ci veniva promessa la condanna al sonno forzato. Si aguzzavano le orecchie per cercare comunque di commentare. Si giocava d’ astuzia noi bambini. In modo velocissimo, con il tono di voce basso, si diceva “guarda questa, sembra uscita dal letto”, “guarda ha la pelliccia dentro al Teatro”, “non si è neanche pettinato”, “però guarda quanti fiori in inverno”.

L’aspetto più difficile da superare a quell’età erano i 4+4 di Nora Orlandi. I mezzi tecnici non erano un granché e il coro sembrava ruggire.

Sanremo 2017

Poi arrivava il momento delle preferenze, a ciascuno il suo Big. E iniziavano i pronostici, partivano le scommesse. “Ma è ovvio che vince lui, sono tanti di quegli anni che non vince”. “No, è in crisi perché la moglie lo ha mollato. In quel mondo lì fanno quello che vogliono… non devono mica alzarsi presto la mattina per andare a lavorare”.

A me incuriosivano gli aspetti ininfluenti e quotidiani dei cantanti. Ovviamente chiedevo a mia madre, ma rispondevano tutti. “Ma mangiano prima di cantare?” “No mangiano tardi, dopo il festival”. “Ma mangiano tardissimo – continuavo io- non hanno fame quando cantano?” “No, mi si rispondeva, sono abituati”.

Passava Shel Shapiro, con i Rocks, passava Morandi con il Vietnam, passavano i Giganti con “mettete dei fiori nei vostri cannoni” …Incominciava un festival che ammiccava ai giovani, che edulcorava le proteste in tre minuti di capelli lunghi, barbe da fare, e “Ma che colpa abbiamo noi”.

Ricordo la voce di Demetrio Stratos, quella me la ricordo bene. I suoi “Pugni Chiusi”, che capii solo più avanti. Ricordo gli Aphrodite’s Child. Mi sembra di ricordare qualcosa di Luigi Tenco, che se ne andò in una camera d’albergo, e gli imbarazzi degli ospiti nella mia casa, perché non si parlava di suicidi davanti ai bambini. La sua grandezza si svelò da sola più avanti, quando incominciai ad ascoltarlo sul serio.

Mio Padre rientrava abbastanza presto e sfoderava un commento cinico “chi ha vinto questa roba?” La parola “roba” conteneva in sé un mondo di disprezzo per quello che propinava la televisione di Stato. E siccome a parte qualche fidanzatino, c’erano tutte donne, posso giurarvi che anche se il papà andava alle riunioni del PCI, beh, non è che quelle parole sapessero molto di femminismo. C’era, nelle sue quattro parole, la liquidazione della “musichetta” e della futilità dei gusti e dei dialoghi delle donne presenti in maggioranza assoluta. Anche se i commenti non li aveva sentiti, riusciva sempre ad immaginarli, perché da giorni parlavano del Festival, e ne avrebbero parlato anche dopo.

Ricordo questo del Festival di Sanremo, e i ricordi, come si sa, spesso imbrogliano.
Di quando diventai più grande, ricordo alcune bellissime canzoni, una tra tutte: “Dimmi che non vuoi morire”, di Vasco Rossi, che mi faceva perdonare le affaticate corde vocali di Patty Pravo. Ma ero già grande, si ascoltava un’altra musica. Si ascoltavano i Genesis, i Van der Graaf Generator, i King Crimson, De Simone con la Nuova Compagnia di Canto Popolare, De André, Il Banco del Mutuo Soccorso, Demetrio Stratos che aveva fondato gli Area, il Perigeo, che rese più ampio il pubblico del Jazz, Soft Machine, Miles Davis. Di pochi anni fa, ricordo l’intervento di Ivano Fossati come ospite, che aveva chiesto una sola frase come sottotitolo per una delle sue grandi canzoni sugli immigrati “Mio fratello che guardi il mondo”. C’era scritto in sovraimpressione “siate gentili con gli ospiti, poiché a loro volta potrebbero aver ospitato un angelo”.

In fondo, si sarebbe potuto scrivere della musica. Ma più che della musica il Festival di Sanremo mi fa parlare di ciò che ricordo. Si guardava, si commentava, si stava insieme. Questo è certo. E le canzoni erano una sorta di riconciliazione nazionale. Se proprio dobbiamo, possiamo dire che Il territorio musicale oggi sembra ancora diviso in due parti. Nette, distinte.

Da una parte le canzoni un po’ agé nei suoni, rinnovate da un po’ di rap e qualche problema sociale. Gli autori, forse, cercano un po’ troppo di fare “una canzone per Sanremo”, ma può darsi che Sanremo abbia uno stile proprio, da tenere in considerazione nella composizione. Dall’altra le canzoni migliori, dalle voci più coltivate di un tempo che cantano l’amore, e si porgono con maggior eleganza sul palco. Non parlo di quella specie di bellissimo “fuori onda” della Mannoia, o di Carmen Consoli e Tiziano Ferro. E del loro rispettoso talento. Parlo di alcune meteore di cui non ricordo ancora il nome, che hanno avuto centomila click su youtube, e dei dischi di oro, platino, incenso e mirra. Vedremo se una mattina, magari tra un mese, ci verrà da canticchiare qualcosa che incomincia quando ci svegliamo e non ci abbandona per tutto il giorno. Il festival va avanti.

Bene fanno, Carlo Conti e Maria De Filippi, a divulgare i valori buoni (e sono tanti) di questo paese. In un Sanremo che si esprime a chiare lettere facendo parlare i ragazzi contro il bullismo, mettendo in scena il duro lavoro degli eroi ignoti che hanno scavato nelle macerie dei tanti terremoti, gli eroi delle forze dell’ordine e della protezione civile che ci danno un senso di appartenenza ad un paese bello, generoso, importante, pieno di valori. E poi, come diceva Fanny Ardant ne “La Signora dalla porta accanto”:

Non so perché, mi vengono in mente solo canzonette, solo canzonette che dicono: non lasciarmi, non andare via, Ne me quitte pas, io non posso vivere senza di te… mi vengono in mente solo canzonette.

Ecco, nel film di Truffaut, il senso di una serata di musica popolare. Le canzonette stanno con noi più di quanto noi stiamo con loro. E non è poco.

Festival di Sanremo. L’Italia della porta accanto ultima modifica: 2017-02-08T21:46:15+01:00 da LUCIO FAVARETTO
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