Ora andrò lontano su al Nord, a giocare al Grande Gioco…
[Rudyard Kipling, “Kim” – 1901]
Gratta un russo e troverai un tartaro, diceva Napoleone. Una riflessione più attuale che mai, alla luce del percorso geopolitico intrapreso dal presidente Putin e dell’evoluzione della Guerra fredda. In questi anni Putin ha voluto rafforzare la presenza della Federazione su più fronti, di pace e di guerra, dal Medio all’Estremo Oriente, dall’Europa ai Balcani, spostandosi a livello nazionale e internazionale tra i due continenti cui la Russia appartiene – l’Europa e l’Asia – e puntando a svolgere il ruolo di paciere in contesti talvolta imprevedibili.

Un caccia Sukhoi Su-30 scorta l’Ilyushin Il-96 presidenziale di Vladimir Putin nel viaggio a sorpresa verso la base russa di Khmeimim in Siria, 11 dicembre 2017
Complice lo “squilibrio” politico americano determinato dall’agenda Trump e malgrado la presenza sempre più rilevante e concreta della Cina, stiamo assistendo a un gioco delle parti in cui non è sempre facile capire il reale livello di potere che Putin ha ottenuto. In alcuni ambiti questa “dimostrazione” ha una valenza puramente elettorale – l’Impero al centro dello scacchiere internazionale, mentre in altri risponde alla necessità di raggiungere differenti livelli di diplomazia economico-commerciale (tra cui, ad esempio, la nota “pipelines diplomacy”) finalizzata all’avvio di relazioni bilaterali tangibili nel medio e lungo periodo.
Basti pensare ai rapporti con la Corea del Nord o alle interlocuzioni avviate da Putin stesso dopo la decisione del presidente Trump di riconoscere Gerusalemme quale capitale di Israele. Una serie di colloqui telefonici con i principali interlocutori dell’area, tra cui il presidente turco Erdoğan e il presidente palestinese Abbas, cui si aggiungono altre visite di stato (in Egitto, ad esempio) per confrontarsi sulle principali questioni aperte e rafforzare il suo ruolo in vista delle elezioni cui – è notizia di alcuni giorni fa ormai – è candidato ufficialmente.

Putin accoglie Assad a Sochi, 21 novembre 2017

Putin e Assad con i militari russi nella base aerea di Khmeimim in Siria, 11 dicembre 2017
Anche in altre aree la presenza russa è divenuta realtà. Il simbolico “abbraccio” tra Putin e il presidente Assad è una dimostrazione di forza puramente politica che conferma una strategia pensata e annunciata dal ministro degli esteri russo Lavrov diversi mesi fa, ossia l’idea di considerare Libano e Medio Oriente “as a whole” [come un tutto]. Un obiettivo rafforzato anche a Sochi il 22 novembre quando Russia, Iran e Turchia si sono incontrati proprio per discutere i delicati equilibri siriani e potenziato dalla visita a sorpresa in Siria dell’11 dicembre in cui, durante l’incontro con il presidente Assad nella base militare russa, Putin ha annunciato il graduale ritiro delle truppe. La base di Khmeimim, probabilmente sarà per Mosca un presidio anche dopo il conflitto nel Mediterraneo. Putin, durante il suo discorso, ha ribadito la volontà, in caso di eventuali attacchi terroristici, di condurre raid mai visti.
Non dimenticheremo mai – ha aggiunto – le perdite patite nella lotta al terrorismo qui in Siria e in Russia.
Un approccio, duro e diretto, che ricorda molto le dichiarazioni rilasciate nel 1999 a proposito dei terroristi ceceni.
A questo si aggiungono sia i progetti politici portati avanti in alcune aree del Paese sia nelle ex repubbliche sovietiche, situate in Asia Centrale, o, in alcuni casi, nel Sud-Est asiatico.
Ed è proprio l’area asiatica a essere da anni al centro di querelle di storici e analisti: la Russia è europea o asiatica? Può essere considerata un ponte tra due continenti oppure solo un luogo di alleanze e partnership strategiche a livello economico- commerciale?
A livello nazionale, durante le sue “vacanze” estive, Putin ha rafforzato la sua presenza nella parte “asiatica” della Federazione, dedicando alla Siberia tempo e risorse in termini di incontri, visite istituzionali, sopralluoghi a siti economico-industriali di interesse strategico. Ricordiamo, infatti, che la Siberia, pur estendendosi ad est della Russia europea, copre tutta l’Asia settentrionale e comprende la maggior parte della steppa asiatica.
Se parliamo di Oriente, la questione si fa più complessa. Spesso si tratta di alleanze “a progetto” e “a geometria variabile”, influenzate da contingenze storiche di breve/medio periodo e, spesso, contrastate da altri Stati concorrenti. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica sono state avviate alcune sinergie mirate nel Sud-Est asiatico per cercare nuovi soci e mercati in ambito tecnologico e militare. Tuttavia, malgrado gli sforzi, queste partnership da sempre sono soggette a continue oscillazioni: il Vietnam, storico alleato della Russia soprattutto in ambito energetico, ha rafforzato, nel contempo, i legami con gli Stati Uniti. Ma un nuovo partner era “nel mirino” russo: la Cina. Ben presto, tuttavia, Putin si accorse che tale alleanza poteva rischiare di trasformare la Russia stessa in un partner debole. E l’attenzione si spostò su India (con cui la Russia aveva avviato accordi commerciali dopo il crollo dell’Urss) e Giappone (con cui i rapporti sono ancora delicati).
Anche se la cooperazione con alcuni di questi Paesi è stata altalenante negli anni, l’appartenenza della Russia all’Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation), fondata nel 1989, e all’Otsc – Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, fondata nel 1992, e le interlocuzioni con l’Asean (Association of South-East Asian Nations) sono, comunque, rilevanti ai fini del perseguimento degli obiettivi del Cremlino.
Per le aree dell’ex Urss o dell’orbita sovietica, invece, il discorso è differente in quanto scontano politiche pluridecennali che ne hanno forgiato la fisionomia politica e sociale. Tra queste rientra sicuramente l’Asia centrale (un tempo, Turkestan Orientale e Occidentale) per cui passava la “Via della Seta” (un reticolo di ottomila chilometri circa che si sviluppava tra l’impero romano e quello cinese).
Ted Rall, giornalista e scrittore americano, in un prezioso e stravagante reportage (“Stan Trek”, Edizioni Becco Giallo, 2009) ha raccontato l’evoluzione di questi Stati denominati “Stan” (i “cinque Stan”: Kazakistan, Turkmenistan, Tajikistan, Kirghizistan, Uzbekistan) che, pur facendo parte di un’area geografica comune, sono estremamente differenti, poco integrati e si sono evoluti in una condizione di frammentazione e instabilità, tra regimi autoritari e interlocuzioni, talvolta inevitabili, con alcuni partner internazionali (in primis, la Cina).

L’incontro Putin-Trump in margine al summit dell’Apec, 11 novembre 2017

Vladimir Putin tra il presidente iraniano Hassan Rouhani e il presidente turco Recep Tayyp Erdoğan, Sochi, 22 novembre 2017
Già a metà del XIX secolo iniziò la penetrazione russa e all’inizio del XX secolo il Turkestan Occidentale fu annesso all’impero dello Zar e russificato. Il governo bolscevico nel 1921 costituì la Repubblica autonoma socialista sovietica del Turkestan. Dopo il suo scioglimento nel 1924, nacquero i noti cinque Stan che ottennero nel 1991 l’indipendenza. Ted Rall ricorda che negli anni del dominio sovietico fu attuata una pesante violazione delle tradizioni di questi Paesi: furono completamente abolite le pratiche religiose islamiche, mentre “le istituzioni nazionali e religiose subirono duri colpi.”
Fallito il progetto sovietico, si verificarono un crollo delle economie locali e l’insediamento di regimi autoritari, ma anche una rinascita delle espressioni di fede pubbliche represse, soprattutto nelle zone rurali. Nel contempo, l’area divenne uno spazio in cui la spinta occidentale guidata dagli Usa, scontrandosi con quella della Russia, determinò una situazione simile alla contrapposizione russo – britannica del XIX secolo, da cui deriva il ritorno dell’espressione “Grande Gioco”, coniata nel 1829 dall’ufficiale britannico Arthur Connolly, utile a definire il braccio di ferro tra le potenze coinvolte.
Sotto la guida di Putin l’Asia centrale è tornata al centro della diplomazia russa. La questione centroasiatica è, infatti, parte del confronto in atto con la Nato ed è vitale per riaffermare un diritto speciale a difendere l’area e le comunità russofone ivi presenti. Ma questi cinque Paesi, malgrado le differenze, non sono rimasti inerti. Consapevoli delle considerevoli risorse in loro possesso e della competizione internazionale collegata all’area, alcuni di questi hanno presto appreso l’arte della negoziazione. Un segnale di rilievo è dato dalla decisione del presidente kazako Nazarbaev di effettuare il passaggio dall’alfabeto cirillico a quello latino entro il 2025. Una scelta che, da una parte, porterà significativi vantaggi in termini di scambi internazionali, ma, dall’altra, potrebbe generare criticità per i cittadini abituati a parlare russo, com’è avvenuto in Uzbekistan in cui il passaggio risale al 1993.
Nel corso del 2017 sono stati numerosi gli incontri tra Putin e i singoli leader degli Stan, la cui ratio prevede, da una parte, il consolidamento dei rapporti one to one con i singoli leader e, dall’altra, la valorizzazione dell’Unione Economica Eurasiatica (Uee) che comprende Bielorussia, Kazakistan, Russia, Armenia e Kirghizistan. Questa idea, proposta dal presidente kazako nel 1994, è stata rilanciata da Putin nel 2011 e nel 2015 è diventata realtà: l’accordo includeva i progetti per la creazione di una Commissione economica eurasiatica (modellata sulla base della Commissione europea) e di uno Spazio economico eurasiatico (modellato sulla base dello Spazio economico europeo).
- Con Sooronbay Jeenbekov, presidente del Kyrgyzstan
- Con Vladimir Vasiliev, facente funzioni del presidente del Daghestan
- Con Almazbek Atambayev, presidente del Kyrgyzstan
- Con Nursullah Nazarbayev, presidente del Kazakhstan

Partecipanti al vertice del consiglio di sicurezza del Csto
Dopo gli incontri di febbraio di quest’anno con il presidente del Kazakistan, del Tajikistan e del Kirghizistan, Putin ha avviato nuove interlocuzioni nel mese di ottobre. In un messaggio di congratulazioni del Cremlino del 16 ottobre al nuovo presidente del Kirghizistan Sooronbay Jeenbekov è stata ribadita l’importanza strategica di una cooperazione sia bilaterale sia nell’ambito dell’Unione Eurasiatica, mentre l’incontro con il presidente kazako è stato un’importante occasione per confermare la necessità di rafforzare l’alleanza tra i due Paesi in ambito politico-economico e nel campo della sicurezza.
Questo incontro, secondo quanto riportato da Radio Free Europe Radio Liberty, è avvenuto all’indomani del summit dell’11 ottobre svoltosi a Sochi tra i membri del Cis – Commonwealth of Independent States e del Consiglio Supremo dell’Unione Economica Eurasiatica che ha visto la presenza dell’Armenia, della Bielorussia, del Kazakistan e del Kirghizistan. Incontri strategici alla luce delle tensioni tra Kazakistan e Kirghizistan, che ha accusato la controparte di aver interferito nelle elezioni presidenziali. Il 10 ottobre, separatamente, Putin ha incontrato anche il presidente del Tajikistan Emomali Rahmon e il presidente turkmeno Berdymukhammedov. In particolare, il Turkmenistan ha firmato un accordo di cooperazione con la Russia in occasione della visita del 2 ottobre di Putin a Ashgabat, prima visita ufficiale del presidente dopo cinque anni, che ha sottolineato la necessità di collaborare nel campo della lotta al traffico di droga e nelle forniture di gas dopo i risultati poco incoraggianti del 2016, mentre il presidente turkmeno ha riaffermato l’importanza del coinvolgimento russo nel processo di cooperazione sul tema afghano.
Alla luce di questi scenari, è fondamentale chiedersi verso quale orizzonte sia diretto lo sguardo dell’aquila a due teste, che rappresenta il sigillo ufficiale russo adottato nuovamente nel 1993 dopo il crollo dell’Unione Sovietica. È inevitabile, infatti, interrogarsi sulla complessa evoluzione identitaria della Russia, nella cui anima dominano due componenti: quella europea e quella asiatica. La risposta non può essere data solo dalla strategia geopolitica attuata in questi anni, ma anche dall’ideologia e da un percorso storico ricco e, nel contempo, estremamente tortuoso.
Secondo Sergio Romano, per
esistere e governare l’immenso spazio di cui si è impadronita, la Russia ha bisogno di una ideologia e di una missione. La vera storia dei Russi, quella che li rende diversi da qualsiasi altro popolo europeo e comparabili, anche se soltanto per certi aspetti, ai romani e agli americani è la storia della loro continua, instancabile avanzata attraverso i grandi spazi dell’Europa orientale e dell’Asia.
I russi hanno creato la loro identità nazionale “rubando i tratti dei popoli conquistati e di quelli da cui sono stati invasi.” In base ai calcoli di Peter Hopkirk, autore del noto saggio “il Grande Gioco”,
l’impero russo, nel corso di quattro secoli, si è ampliato al ritmo di circa 150 kmq al giorno, più di 50.000 all’anno.
L’Eurasia è un non-luogo, in cui l’identità russa ha vissuto fasi storiche molto differenti tra loro. Lo storico Orlando Figes nel suo brillante saggio “La danza di Nataša” (Giulio Einaudi editore, 2004) ricostruisce l’appartenenza frammentata del popolo russo, partendo dalle origini di alcune grandi famiglie russe di discendenza mongola (anch’essa frammentata): parliamo di Bulgakov, Achmatova, Godunov, Rimskij-Korsakov, Rachmaninov, Stroganov, Gogol’, per citarne alcuni. La famiglia stessa di Kandinskij discendeva dai tungusi, una popolazione che viveva in Mongolia.
Nell’Ottocento molte famiglie russe dicevano di avere antenati tatari per sentirsi più esotici, come Nabokov che pretendeva (“forse ironicamente”, aggiunge Figes) di essere un discendente di Genghiz Khān. A questo entusiasmo ottocentesco focalizzato anche sull’Eurasia subentrò, tuttavia, un altro mito: quello di una civiltà cristiana, frutto di una sinergia tra Scandinavia e Bisanzio in un “paradigma epico che vedeva la lotta degli agricoltori delle terre boscose settentrionali” contro i cavalieri delle steppe asiatiche. Ipotizzare un’influenza asiatica minava, dunque, il mito dell’identità europea. A fine Ottocento, tuttavia, si diede impulso alla ricerca di tracce di Asia nella cultura russa, come fece Kandinskij.
In realtà la dominazione mongola che vide la Russia sottomessa a partire dal 1237 per circa 250 anni lasciò nei russi un senso di vergogna molto forte, anche se in alcuni territori i principi russi convivevano con i cavalieri asiatici, che decisero di non distruggere il patrimonio locale né provocare danni o stasi commerciali. Il “giogo mongolo” ha modificato la percezione asiatica, trasformandola in una condizione di arretratezza culturale. Ricordiamo, tuttavia, che dalla tecnologia militare all’etimologia di molte parole, dallo stile di vita alla cultura popolare, dai costumi russi ai capi di vestiario (la corona degli Zar, ossia il “cappello di Monomaco”, giunta, secondo la leggenda, da Bisanzio, era di origine tatara). Fu lo Zar Ivan il Terribile a commemorare la disfatta dei khanati mongoli, decidendo di far costruire sulla Piazza Rossa a Mosca la nota Cattedrale di San Basilio, completata nel 1560. Non si trattava, tuttavia, di una semplice commemorazione religiosa, ma il “trionfante proclama della liberazione dalla cultura tatara” che aveva dominato il Paese dal XIII secolo. Una sorta di vittoria della crociata ortodossa.
La conquista religiosa della steppa asiatica, secondo Figes, svolse per l’Impero russo “un ruolo più cruciale di quello giocato dalle analoghe missioni degli Stati europei nei loro imperi d’oltremare.” Ed è collegato ad una motivazione geografica, visto che non vi era un oceano che potesse dividere la Russia dalle colonie asiatiche: per questo le categorie culturali erano fondamentali e, nel caso della Russia, quella più funzionale era la componente religiosa, soprattutto considerato il posizionamento europeo imperante nel Settecento (anche alla luce delle politiche adottate dallo Zar Pietro il Grande, profondamente “europeista”).
Il rapporto tra letteratura e impero, secondo Figes, fu molto forte ai fini della conquista russa dell’Oriente, percepito come regno “edonistico di fasto sensuale e di indolenza”. Il Sud e l’Est si incontrarono dando origine ad una controcultura esotica nell’immaginario russo. E, sempre nell’Ottocento, mentre si combatteva senza tregua contro le tribù musulmane del Caucaso, scrittori, artisti e compositori russi vi si identificavano in maniera romantica.
Nel corso degli anni l’approccio verso la parte asiatica è cambiato, in maniera sempre più contraddittoria: la “perfetta monotonia” dell’interminabile steppa che Mandel’stam definì “il vuoto d’anguria della Russia” e la convinzione che la steppa portasse i contadini e la nobiltà terriera a “instupidirsi” si rafforzarono. La parola adottata dai Russi per descrivere questa inerzia era “oblomovismo” (da Oblomov, protagonista dell’omonimo romanzo del 1859 di Gončarov, che passava il suo tempo in veste da camera, una veste di cui lo scrittore rimarcava l’origine asiatica). Oblomov divenne, dunque, “un monumento culturale all’immobilità asiatica” della Russia.
Anche Lenin usava questo termine quando si sentiva frustrato di fronte all’impossibilità di riformare la vita sociale russa. Nel 1920 diceva che “il vecchio Oblomov è con noi, ma ancora a lungo avrà bisogno di essere lavato, pulito, scrollato e ci vorrà una buona bastonatura per ottenere qualcosa da lui.” Come accennato in precedenza, si trattava di una percezione contraddittoria: l’idea che la Russia “avesse un diritto culturale e storico sull’Asia diventò un mito fondante dell’impero.” Anche Dostoevskij si convinse, ad un tratto, che il destino della Russia non fosse in Europa, ma in Asia. Secondo lo scrittore russo, solo in Asia la Russia poteva “trovare nuova linfa per riaffermare la propria natura europea.” Tra molti era diffusa la credenza che le forze rivoluzionarie del 1917 fossero una “forza asiatica” e tra tanti intellettuali che decisero di emigrare si sviluppò il movimento degli eurasisti. Un fenomeno che si ricollegava al senso di “tradimento patito dalla Russia da parte dell’Occidente negli anni tra il 1917 e il 1921.”

Un’immagine nella platea dei giornalisti alla conferenza annuale di Vladimir Putin, 14 dicembre 2017
E oggi? Politica e cultura hanno sciolto il nodo dell’appartenenza?
Come ricordato da Forbes a novembre, nel 2010 Putin ha lanciato una nuova strategia definita “Turn to the East” per contrastare l’influenza statunitense. Nel 2011, come noto, il Cremlino ha espresso la volontà di
costruire una nuova Unione Eurasiatica mirante non solo a rafforzare i legami economici tra i membri, ma anche a promuoverne una futura integrazione politica.
Un progetto accolto con allarme dagli altri partner timorosi di un nuovo “controllo neo-imperiale” sugli stati post-sovietici” e da “scetticismo” da altri (Aldo Ferrari, Limes – gennaio 2016). Ferrari ha sottolineato che l’espressione usata da Putin evoca proprio il movimento dell’eurasismo che rappresenta
l’espressione più radicale dell’aspirazione della Russia a seguire un percorso lontano da quello europeo e occidentale.
Il movimento, che considera la Russia una realtà a sé, non facente parte dell’Europa e dell’Asia, è stato ostracizzato per decenni in Urss e ha ripreso nuovo vigore, anche grazie allo storico Lev Gumilëv, nella fase post-sovietica. In realtà Putin, malgrado il suo temperamento politico, si è sempre posizionato al di fuori di questa etichetta ideologica. La sua risposta a tutto ciò è proprio l’Unione Eurasiatica, cui si sono opposti gli Stati Uniti per ovvie ragioni geopolitiche, mentre altri Paesi dell’orbita sovietica mantengono le proprie riserve proprio per timore di favorire l’egemonia russa nell’area.
In una prospettiva deideologizzata, il progetto eurasista”, secondo Ferrari,
non prevede quindi la fine dei rapporti politici e culturali con l’Europa e l’Occidente, ma appare piuttosto in stretto collegamento con una nuova strategia per lo sviluppo della Siberia e dell’Estremo Oriente russo in un’ottica diversa da quella imperiale e sovietica, mirante invece a fare della Russia una potenza globale moderna, capace di trarre vantaggio dalla sua favorevole posizione bicontinentale.
Ferrari, tuttavia, sottolinea la necessità di possedere “un’attitudine creativa” a livello nazionale e verso i Paesi post-sovietici. Senza questo elemento il progetto non potrà garantire l’esito sperato.
Secondo Newsweek, per Putin “l’integrazione eurasiatica è il comune denominatore della sua politica in Asia centrale”, una piena collaborazione economica, militare e politica che potrebbe consolidare l’influenza russa. Secondo l’Asia Times, Putin, restio in pubblico a parlare della cosiddetta “the Greater Eurasia”, ha cercato di mostrare a tutti i benefici legati al consolidamento di un’entità capace di rafforzare i legami già presenti tra Europa e Asia. Una formazione forse in grado di includere in futuro anche Cina, India, Pakistan, Iran e altre aree un tempo appartenenti all’Unione Sovietica.
Si tratta di un progetto estremamente ambizioso, a tratti utopistico. Solo il tempo potrà deciderne la sorte.
Finito di redigere in data 13 dicembre, alle ore 23.
Le immagini sono tratte dal sito ufficiale del presidente Vladimir Putin

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