I conservatori e i “riformisti” uniti, sia pure con tonalità diverse e forse anche con finalità opposte, nel gridare al “complotto esterno”. La protesta che si trasforma in rivolta. L’Iran di oggi.
Promesse non mantenute perché nonostante la presidenza sia in mano a un “riformatore”, i gangli vitali dello stato e dell’economia sono ancora saldamente nelle mani dell’ala conservatrice del regime. Cuore, testa e “pancia”: la rivolta iraniana assomiglia sempre più, nelle motivazioni che l’hanno innescata, alla “rivoluzione dei gelsomini” in Tunisia: il malessere sociale che si fonde con la rivendicazioni di riforme sostanziali nel campo dei diritti civili e politici.
A innescare la protesta è il crescente malessere sociale: la disoccupazione è ancora al 12,4 per cento con un aumento di 1,4 punti nell’ultimo anno. Circa 3,2 milioni di persone sono senza lavoro, su una popolazione di ottanta milioni. Le proteste sono esplose dopo che migliaia di risparmiatori hanno visto i loro conti bloccati dopo aver investito in istituzioni finanziare legate al governo ma ancora sotto sanzioni e in crisi di liquidità.
Le proteste sono condotte soprattutto da quella parte della società che più sente la morsa della crisi economica, in particolare quelle che hanno perduto i loro soldi con il fallimento degli istituti di credito,
conferma Payam Parhiz, redattore capo della rete dei media riformatori “Nazar”.
Da un lato della “barricata”, quanti si battono contro la corruzione e per riforme più coraggiose; dall’altro lato, i conservatori che quelle riforme intendono boicottare perché minacciano un consolidato sistema di potere: nel mezzo, il presidente Hassan Rohani.

Hassan Rohani. A portarlo alla presidenza dell’Iran è stato il voto dei giovani, delle donne e della classe media.
A portarlo per la seconda volta alla presidenza dell’Iran è stato soprattutto il voto dei giovani, delle donne, della classe media delle grandi città. Un voto per sbarrare il passo all’ala più conservatrice del regime, quella che ha nella Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei il suo referente massimo.
Le speranze tradite hanno generato la protesta, così come la denuncia di una corruzione che dilaga a ogni livello dell’apparato pubblico. Il sindaco di Teheran Mohammad Bagher Ghalibaf ha detto che
il Paese si trova ad affrontare crisi economica, disoccupazione, recessione e inflazione. Un albero dal quale non è nato alcun frutto in quattro anni non produrrà nulla di positivo per il futuro.
Ghalibaf si riferiva ai primi quattro anni di presidenza Rohani. Tanto più che le uniche a crescere sono le spese militari. Sono già stati stanziati miliardi per l’acquisto dei carri armati russi T-90, per l’artiglieria, per i nuovi aerei da combattimento Su-30 e per elicotteri. Nel corso del biennio 2016-2017 il settore della difesa iraniana è cresciuto del 45 per cento.
A ciò si aggiungono i finanziamenti – calcolati in circa seicento milioni di dollari – elargiti annualmente a Hezbollah, Hamas e agli Houthi yemeniti. E come non bastasse, mentre cresce il numero dei disoccupati, lo stato iraniano ha finora stanziato oltre 4,6 miliardi di dollari per sostenere direttamente il regime siriano di Bashar al-Assad, ai quali si aggiungono gli armamenti e il pagamento dei salari – trecento dollari al mese – per gli oltre cinquantamila Pasdaran impegnati sul fronte di guerra siriano.
La guerra costa, così come la corsa al riarmo. Una corsa che rischia di finire male per un regime che si sbaglia, in difetto, a definire “teocratico”. Perché quello che si è consolidato in questi decenni post-khomeinisti in Iran è anzitutto un sistema industriale-militare che usa la religione come copertura ideologica.

L’ala più conservatrice del regime ha nella Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, il suo referente massimo.
La protesta dilagante mette in luce anche le divisioni interne al regime. Il governo di Rohani, insieme ad alcuni riformisti moderati, ha accusato gli avversari conservatori di essere dietro le proteste di piazza. Alcuni conservatori hanno infatti sostenuto i dimostranti affermando che il popolo ha il diritto di esprimere dissenso rispetto ai propri problemi economici, un diritto che era invece considerato come sedizione ai tempi delle manifestazioni del 2009, cui parteciparono milioni di persone dentro e fuori il paese.
Rohani aveva puntato sull’apertura economica all’Occidente come volano per una crescita economica e sulla fine delle sanzioni come frutto benefico dell’accordo sul nucleare. Ciò spiega l’assenza di accenni, da parte di Teheran, al fatto che la situazione di criticità economica per ampi settori della popolazione iraniana è in parte causata proprio dall’atteggiamento degli Usa, e dal persistere di alcune sanzioni volute da Trump nonostante l’accordo nucleare siglato dal suo predecessore Obama nel 2015, che l’America dell’attuale presidente vorrebbe cancellare.
Oggi, anche a causa delle sanzioni, in Iran circa quindici milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà, ovvero il venti per cento della popolazione.

Kerry stringe la mano a Zarif davanti a Federica Mogherini alla fine dei negoziati sul programma nucleare iraniano il 14 luglio 2015.
Propagandato dalla tv di stato, invece, è l’invito agli iraniani a non partecipare a “raduni illegali”. Secondo numerosi osservatori l’invito è diretto a intellettuali e borghesia illuminata, che rimproverano al presidente Rohani di non aver ancora realizzato le sue promesse su diritti civili, diritti politici e diritti umani.
Numerosi sono gli iraniani delusi dal fatto di non avere ottenuto benefici dall’accordo del 2015 sul nucleare, che ha permesso la revoca di sanzioni internazionali che colpivano la Repubblica Islamica. Un monito, però, anche a quella parte iper-conservatrice del paese che rimpiange la presidenza di Mahmoud Ahmadinejad e che, sempre oggi, ha voluto festeggiare la sua rielezione a presidente nel 2009.
Otto anni fa Ahmadinejad riuscì a sconfiggere la piazza e i candidati moderati di allora, Mirhossein Mousavi e Mahdi Karrubi. Dopo anni sottotono, ora molti ritengono che ci sia anche lui dietro agli attuali problemi economici di Rohani. Ahmadinejad ha infatti avviato una sorta di sotterranea campagna elettorale in vista delle presidenziali del 2020, diffondendo dichiarazioni pubbliche e messaggi sui social network che criticano la situazione del paese e la magistratura, rea di aver fatto finire in carcere persone a lui vicine per corruzione e reati finanziari.

L’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad. Dopo anni sottotono, ora molti ritengono che ci sia anche lui dietro agli attuali problemi di Rohani.
Che i conservatori abbiano nel mirino Rohani è chiaro, quel che non funziona è una lettura “retroscenista” degli eventi che stanno infiammando l’Iran. Una lettura che non tiene conto del fatto che chi detiene davvero le redini del potere in Iran non ha ragioni per destabilizzare il paese. Il riferimento è ai Pasdaran.
Secondo uno studio recente, i Pasdaran controllerebbero addirittura il quaranta per cento dell’economia iraniana: dal petrolio al gas e alle costruzioni, dalle banche alle telecomunicazioni. Un’ascesa che si è verificata soprattutto sotto la presidenza di Ahmadinejad, ma che è proseguita sotto quella di Rohani. I Pasdaran fanno direttamente capo alla Guida suprema della Repubblica islamica dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei. E sempre la Guida suprema controlla direttamente la Setad, una fondazione con 95 miliardi di dollari di asset presente in tutti i comparti dell’economia.
La Setad di Khamenei (ovvero “Setad Ejraiye Farmane Hazrate Emam”, “Sede per l’esecuzione degli ordini dell’Imam”) rimarca Alberto Negri, tra i più validi conoscitori del “pianeta-Iran”
fu costituita nel 1989 dall’imam Khomeini, con il compito di gestire le proprietà sequestrate negli anni caotici post rivoluzionari per poter aiutare i poveri e i veterani della guerra durata otto anni contro l’Iraq (un milione tra morti e invalidi). All’epoca dello Shah cento famiglie introdotte alla corte dei Palhevi controllavano l’ottanta per cento dell’economia che oggi è passata nelle mani dell’élite al potere. Doveva rimanere in vita solo un paio d’anni ma nel corso del tempo si è trasformata in un colosso immobiliare – 52 miliardi di asset – che ha acquistato partecipazioni in decine di aziende in quasi tutti i settori: finanza, petrolio, telecomunicazioni, dalla produzione di pillole anticoncezionali all’allevamento degli struzzi. Tra portafoglio immobiliare (52 miliardi di dollari) e quote societarie (43 miliardi) la Setad ha un valore nettamente superiore alle esportazioni petrolifere iraniane dello scorso anno. Le Bonyad, le Fondazioni esentasse, sono il cuore dell’economia: detengono almeno il trenta/quaranta per cento del Pil e hanno sottratto spazio ai privati favorendo soltanto alcuni di loro, quelli vicini alla cerchia del potere che ricordiamolo è comunque sempre a geometria variabile, a seconda delle stagioni politiche…
Se si somma il potere diretto di Kamenei a quello altrettanto pervasivo e radicato della “Pasdaran Holding”, si ha un quadro sufficientemente nitido di un regime teocratico-militare che si è fatto, per l’appunto, sistema. Rohani ha provato a sfidare dall’interno il regime, scontrandosi con resistenze potenti e con l’orizzonte limitato di un presidente moderatamente “riformatore” ma pur sempre un chierico, e come tale impossibilitato a cavalcare l’”Onda verde” che non rivendica solo più budget sociale e posti di lavoro, ma unisce a questo la rivendicazione di più libertà, nella sfera pubblica come in quella privata.
Ai tempi della prima campagna presidenziale, i cartelloni che propagandavano la sua candidatura ripetevano lo slogan di Rohani: “Prudenza e speranza”. Oggi si può affermare che la prudenza ha seppellito la speranza.
La protesta non accenna a placarsi. E per il riformatore Rohani è il momento della verità. Una verità amara: così come è stato per il socialismo reale, anche il regime teocratico-militare appare sempre più irriformabile.

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!