Un mondo disattento e privo di memoria non ha certo segnato in rosso la data del 14 gennaio 2018. Un errore, grave, sia dal punto di vista storico che sul piano politico. Senza memoria non c’è futuro, si usa, giustamente, ripetere. E guardando al tormentato scenario mediorientale, non vi può essere futuro di pace in Terrasanta se non si parte dal ragionare sui perché del fallimento degli accordi di Oslo-Washington.
Nel sancire la morte di quegli accordi, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha addossato la responsabilità al governo israeliano e al presidente Usa Donald Trump il cui piano di pace è stato liquidato dal moderato Abu Mazen come lo “schiaffo del secolo”:
Abbiamo detto no a Trump, non accetteremo il suo progetto, l’accordo del secolo è lo schiaffo del secolo e non lo accetteremo,
sancisce il presidente dell’Anp.
Ma ridurre questo evento alla polemica contingente, farebbe torto a ciò che quegli accordi hanno rappresentato nel momento della loro nascita: l’avvio di una sia pur breve stagione di speranza, iniziata quel 13 settembre 1993 con il mondo incollato davanti al televisore per la cerimonia sul prato della Casa Bianca che passerà alla storia per la stretta di mano tra due nemici di sempre che quel giorno avviavano un cammino di pace: Yitzhak Rabin e Yasser Arafat. Con loro, l’allora ministro degli esteri israeliano Shimon Peres e il presidente Usa Bill Clinton.
È trascorso quasi un quarto di secolo da quel giorno, e tre dei quattro protagonisti sono morti, uno di loro, Yitzhak Rabin, assassinato da un giovane zelota israeliano, Yigal Amir, perché aveva osato provare a far la pace con il nemico palestinese.
Venticinque anni di trattative avviate e poi interrotte, di intifade sanguinose, di colonizzazione forzata, di embargo totale (Gaza): venticinque anni e tre presidenti americani (escluso il quarto attualmente in carica) che hanno provato a lasciare un segno indelebile nella storia con un accordo di pace tra israeliani e palestinesi.
Venticinque anni di meeting internazionali, di missioni diplomatiche, di vertici arabi, europei, bilaterali e multilaterali.
Venticinque anni di road map messe a punto e mai praticati; venticinque anni nei quali non c’è leader mondiale che non abbia ripetuto, sempre più stancamente, che la fine del conflitto israelo-palestinese doveva fondarsi sulla soluzione a “due stati”.
Di fronte allo strappo consumato dagli Stati Uniti su Gerusalemme, non possiamo più giocare di rimessa, abbiamo bisogno di ridefinire una una strategia che dia un futuro alla questione palestinese.
afferma Hanan Ashrawi, figura di primo piano dell’Olp, già ministra e parlamentare palestinese. Continua Ashrawi, che rivestì il ruolo di portavoce della prima delegazione palestinese ai colloqui di Washington:
Ciò che non è più accettabile è veder riproporre dalla comunità internazionale la soluzione a due stati e avere la consapevolezza che la politica colonizzatrice d’Israele ha reso da tempo impraticabile questa soluzione.
Gerusalemme, e non solo. Incalza Ashrawi:
Ai leader europei che ripetono due stati, chiedo: ma quali ne sarebbero i confini? Dove, di grazia, dovrebbe nascere lo stato di Palestina? Pensate a uno stato o spacciate per tale un bantustan modello Sud-Africa dell’apartheid? Quegli accordi hanno fallito perché hanno rinviato a un futuro indefinito la discussione su tutti i nodi strategici di un vero accordo di pace: i confini, il rispetto delle risoluzioni Onu, il controllo delle risorse idriche, una soluzione concordata per il diritto al ritorno…Ci si è illusi che il tempo avrebbe favorito la pace, invece il tempo è servito a Israele per annettersi di fatto territori occupati e distruggere la soluzione a due stati.
Le fa eco Saeb Erekat, storico capo negoziatore palestinese, oggi segretario generale dell’Olp:
Come si ritiene possibile rilanciare quegli accordi con un governo israeliano che pensa, in una sua parte maggioritaria, di dover formalizzare l’annessione di una parte della Cisgiordania, modificando unilateralmente i confini dello Stato d’Israele.
Chiudere una fase per aprirne una nuova. Sul versante diplomatico, rientra l’opzione, perorata da elementi di spicco di Fatah e dell’Olp, di intensificare gli sforzi internazionali, specialmente attraverso le Nazioni Unite, l’Unione europea, la Cina e la Russia, per far avanzare il riconoscimento internazionale dello stato di Palestina entro i confini del 1967. Di questo Abu Mazen parlerà il 22 gennaio nell’incontro che il presidente palestinese avrà a Bruxelles con i ministri degli esteri dell’Ue.
In quell’occasione, anticipano fonti della presidenza palestinese, Abu Mazen spiegherà, cartine geografiche alla mano, come Israele abbia distrutto la possibilità di una soluzione a due stati, trasformando molti insediamenti in Cisgiordania in vere e proprie città, spezzando il territorio palestinese in tanti frammenti divisi tra loro.
Nella strategia messa a punto, ma non ancora svelata nella sua interezza, c’è anche l’opzione di chiedere al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di definire i Territori palestinesi come country under occupation, facendosi così garante della sicurezza della popolazione palestinese, come il rivolgersi alla Corte penale internazionale dell’Aia per avviare un procedimento legale contro Israele.
Oggi tutti devono guardare in faccia la realtà: l’alternativa reale è tra l’istituzionalizzazione dell’apartheid e la realizzazione di uno stato binazionale,
ripetono a Ramallah autorevoli dirigenti palestinesi.
Una prospettiva, quest’ultima, resa ancora più attuale dallo strappo americano su Gerusalemme, e oggi apertamente discussa nei circoli progressisti israeliani, una volta preso atto dell’impraticabilità della soluzione a due stati.
Se Gerusalemme non può essere capitale di due stati, allora che lo diventi di uno stato binazionale. In questo modo, i Palestinesi possono mettere in difficoltà l’ultradestra nazionalista israeliana e al tempo stesso individuare un terreno comune di azione con quella parte dell’opinione pubblica israeliana che ancora crede nel dialogo ma che non scenderà mai nelle strade per dire no a Gerusalemme capitale d’Israele. Capitale, sì, ma di quale Israele? L’Israele che in nome di una purezza identitaria istituzionalizza un regime di apartheid a cominciare da Gerusalemme? O è un Israele che sceglie di essere una democrazia compiuta e non una etnocrazia, e allora ha solo una via da imboccare: quella di uno stato binazionale, con Gerusalemme sua capitale.
A sostenerlo, in una recente intervista concessami per Huffington Post il più autorevole storico israeliano Zeev Sternhell.
D’altro canto, aveva aggiunto Sternhell,
Dato per scontato che in uno stato binazionale il voto sia incardinato ad un principio assoluto di appartenenza etnica, che annulli totalmente visioni diverse, spesso opposte, di società, del rapporto tra stato e religione, di parità di genere, di pluralità culturale che attraversano sia Israele che la società palestinese. D’altra parte già oggi Israele è uno stato che ha come terza forza parlamentare una lista, che già nella sua definizione, Lista Araba Unita, fa riferimento esplicito ad una popolazione, quella araba israeliana, che rappresenta oltre il venti pr cento del paese. So bene le difficoltà, le resistenze, gli ostacoli da superare, che non sono solo politici ma culturali, identitari. Ma credo anche che questo sia il momento per un nuovo inizio. Sin qui si è detto: due popoli, due stati. È tempo di affermare due popoli, uno stato. Democratico.
Una linea condivisa da altri protagonisti del dialogo israelo-palestinese, come lo scrittore israeliano Abraham Yehoshua e l’ex presidente dell’Università Al-Quds di Gerusalemme Est, il palestinese Sari Nusseibeh.
Ma per percorrere questa strada occorre prima rimuovere l’illusione, perché tale ormai è, della praticabilità dei due stati. E dunque, dichiarare l’impossibilità di avere come referente negoziale gli accordi di Oslo-Washington.
La discussione in seno agli organismi dirigenti palestinesi riflette la drammaticità del momento. Salim Zanoun, presidente del comitato centrale di Fatah, dice che almeno novanta dei cento quattordici membri dell’organismo parteciperanno all’incontro:
Ci aspettiamo che vengano prese decisioni importanti, in discontinuità col passato. Non possono continuare a chiedere a noi palestinesi di continuare a far riferimento agli accordi di Washington, quando questi accordi sono stati calpestati da Israele, come calpestata è stata la legalità internazionale.
Per Abu Mazen è il momento più difficile della sua presidenza: nei giorni scorsi, l’anziano leader ha ricevuto pressioni da parte europea e di diversi paesi arabi, come l’Arabia Saudita, perché non “chiuda i giochi” e renda così ancora più problematica l’azione internazionale e gli sforzi diplomatici.
Della dirigenza palestinese, Mustafa Barghouti, leader di Al-Mubadara (Iniziativa nazionale palestinese) rappresenta la componente più laica e progressista. Ci dice al telefono:
Da anni ormai in Cisgiordania vige un regime di apartheid. Attualmente la Cisgiordania è divisa in venticinque enclave e frantumata da trecentocinquanta check-point, mentre la gente di Gaza è isolata dal mondo e sottoposta ad un embargo che dura da oltre dieci anni.
Nei giorni scorsi, sull’onda dell’uccisione di un civile israeliano, Razie Shevah, rabbino trentacinquenne residente nella colonia di Havad Gilad, l’amministrazione civile israeliana – l’ente che si occupa della gestione degli affari civili nei Territori occupati – ha dato l’approvazione finale alla costruzione di trecento e cinquantadue nuove case per coloni in Cisgiordania e proseguito nella definizione del piano per altre settecento e settanta unità abitative. Un totale di mille e cento ventidue abitazioni.
Al tempo stesso, il governo israeliano ha approvato l’assegnazione di duecentotrenta milioni di dollari per finanziare la costruzione di strade coloniali nella Cisgiordania occupata.
Negli ultimi cinquant’anni le colonie si sono sparse ovunque nei Territori occupati, per cui circa centosettantamila coloni vivono al di fuori dei blocchi di insediamenti. Gli ultimi dati dell’Ufficio centrale di statistica israeliano mostrano che il quarantaquattro per cento dei circa trecento e ottantamila coloni della Cisgiordania – esclusa Gerusalemme est – vive al di fuori dei blocchi.
Negli ultimi anni parecchi politici si sono uniti ai dirigenti dei coloni parlando dell’obiettivo di insediare un milione di israeliani in Cisgiordania come un’opzione realistica. Ritengono che, se questo accadesse, non sarebbe più possibile dividere la zona e disegnare una mappa per due stati, uno israeliano e l’altro palestinese.
“Sostengono che un’evacuazione di quelle dimensioni diventerebbe impossibile anche se fosse al potere la sinistra”, rivela Yotam Berger, autore di un documentato servizio sui coloni di Cisgiordania.
Annota Mustafa Barghouti:
Tutti continuano a ripetere che per porre fine alla questione israelo-palestinese serve la soluzione dei due stati ma la realtà è che non è più possibile: i palestinesi non hanno più una terra loro.
Ma se quegli accordi sono falliti la responsabilità è anche dei “fratelli coltelli” arabi. Il leader palestinese ha anche polemizzato con i ministri della Lega araba, secondo cui finora le reazioni palestinesi sono state contenute, e ha replicato che nelle dimostrazioni di protesta contro Trump (per la sua decisione di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele) i palestinesi dei Territori hanno avuto “venti morti, cinquemila feriti e mille persone arrestate”.
Ma questo non basta ai rais arabi che, oggi come ieri, fanno della “causa palestinese” una bandiera da issare a piacimento, per fomentare l’antisionismo senza mai aver avuto a cuore i diritti di un popolo oppresso.

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