Gerusalemme capitale. La posta in gioco

Il riconoscimento di Trump della "città palinsesto" come capitale dello stato di Israele è un "semaforo verde" a ulteriori annessioni e un presagio di guerra con l'Iran
KENNETH BROWN
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Nel 1956 fui testimone della guerra di Suez contro l’Egitto. Era il tentativo da parte di Israele, Francia e Gran Bretagna di abbattere Nasser e minare la rivoluzione algerina. Al tempo, ero a Gerusalemme per un periodo di studio e sentii il primo ministro Ben Gurion dichiarare a una folla eccitata, riunita a Sion Square, che Israele non avrebbe mai e poi mai rinunciato alla Striscia di Gaza e alla penisola del Sinai, tanto gloriosamente conquistate.
Nel giro di pochi mesi, Eisenhower annunciò che Israele si sarebbe effettivamente ritirato dai territori occupati. Il Grande Fratello aveva parlato, e in modo definitivo.

La sconfitta di Suez fu la dimostrazione che esisteva un solo modo di agire: quello americano (cit. cf. M. Woollacott, After Suez, London 2006).

La delusione per il ritiro dai territori occupati svanì presto. Grazie al suo successo militare, Israele si sentì liberato: il suo esercito era indiscutibilmente in grado di assicurare la sopravvivenza del paese mentre l’espansione territoriale era stata fissata come obiettivo nazionale.

Ben Gurion credeva che le generazioni future avrebbero avuto bisogno di condurre guerre preventive contro i vicini arabi, i loro nemici perenni. La pace era considerata impossibile: gli arabi, gravemente sconfitti nel 1948, erano stati piegati di nuovo. Fino alla prossima guerra, il Sinai e la Striscia di Gaza sarebbero tornati sotto il controllo egiziano.

La campagna del Sinai del 1956 servì da modello per la guerra del 1967; come ha scritto Woollacott, “Israele aveva preso di più e si era tenuto quel che aveva preso”. Che Israele agisca sempre di forza e mantenga l’iniziativa, che faccia concessioni solo quando la sua superiorità è assoluta e non stia mai sulla difensiva, divennero a quel punto idee profondamente radicate. Si riteneva che le soluzioni militari sarebbero state in grado di risolvere i problemi dello stato.

Operazioni e guerre preventive divennero una politica. Inoltre, l’alleanza di Suez con la Francia aveva garantito quella tecnologia che avrebbe portato allo sviluppo di armi nucleari da parte di Israele, il deterrente fondamentale. Secondo lo storico israeliano, B. Kimmerling, la società era costantemente militarizzata e i confini tra sfera militare e sfera politica confusi. Israele raffigurava se stesso come fosse sotto assedio, alimentando l’inimicizia nei confronti degli arabi come se questi ultimi incarnassero un pericolo per l’esistenza della nazione e per ogni singolo ebreo-israeliano (Politicide, Londra 2006).

In tutto questo, che dire di Gerusalemme –“la città palinsesto”- e dei molti strati che la compongono sotto la superficie? Un secolo fa, nella Grande Guerra – dopo l’Accordo Sykes-Picot e la Dichiarazione Balfour che prometteva la Palestina a tutti – Allenby aveva conquistato la città e posto fine a quattro secoli di dominio ottomano. Si era stabilito il mandato britannico sulla Palestina, che era poi finito nel giro di una generazione portando a una guerra inevitabile tra gli abitanti arabi e quelli ebrei.

Il progetto delle Nazioni Unite per la creazione dei due stati di Israele e Palestina (1947), richiedeva un corpus separatum, vale a dire l’amministrazione internazionale e condivisa dei territori di Gerusalemme e Betlemme. Il piano, respinto dai palestinesi, non è mai stato applicato ed è seguita la guerra. Successivamente, le linee del cessate il fuoco consegnarono Gerusalemme occidentale al nascente stato di Israele e Gerusalemme est (e Betlemme) alla Giordania. La città venne così divisa da una terra di nessuno, mentre Israele procedeva ad annettere Gerusalemme occidentale e a dichiararla sua capitale.

Di fatto, è stato istituito uno status quo con una città non riconosciuta a livello internazionale né come parte di Israele né della Giordania. Gli Stati Uniti hanno quindi definito la loro politica su Gerusalemme: “settant’anni di neutralità”. Mio figlio, nato lì insieme con altri 50.000 americani, ha indicato come luogo di nascita sul passaporto: “Gerusalemme Palestina (retta da Israele)”.

Quella politica – vaga, indefinita – ha resistito alla prova del tempo fino al recente riconoscimento della città quale parte e capitale di Israele.

La guerra del 1967 mirava a collocare Gerusalemme Est tra i territori palestinesi occupati. Ben Gurion era stato accusato per la “perdita” di Gerusalemme Est nel 1948, “causa di lamenti per generazioni” (cfr B. Morris, Righteous Victims, N.Y. 2001). Ora che era stata conquistata e occupata, l’annessione unilaterale doveva essere ufficialmente proclamata “la capitale riunificata dello Stato di Israele” dalla Legge di Gerusalemme del 1980.

Dal 1967 in poi la comunità internazionale, compresi gli Stati Uniti, ha respinto l’annessione illegale della città da parte di Israele, l’espansione dei suoi confini, le sue trasformazioni fisiche e demografiche. La risoluzione 476 del Consiglio di sicurezza ha dichiarato l’annessione “nulla e inesistente”: una potenza occupante non ha la sovranità nel territorio che occupa.

Pochi sono stati i vincoli nei confronti della politica israeliana tesa a stabilire “fatti sul terreno” nei territori occupati. Ma, come sostiene Dieckhoff, la dichiarazione del presidente Trump è stata il primo riconoscimento politico e giuridico di Gerusalemme come capitale d’Israele. La dichiarazione dell’ambasciatrice statunitense presso le Nazioni Unite Nikki Haley, secondo cui la decisione di Gerusalemme è “la volontà del popolo americano”, è in linea con quella politica. Israele ha ricevuto “luce verde” dagli Stati Uniti, per perseguire come ritiene opportuno la sua colonizzazione e le annessioni. I principi del processo di pace per l’istituzione di uno stato palestinese entro i confini prima del 1967 con la capitale a Gerusalemme Est sono senza sostanza. Un titolo su Haaretz lo dice senza mezzi termini:

Trump non ha ucciso il processo di pace, l’ha semplicemente dichiarato morto.

In termini di politica interna, alla cui sfera va riferito gran parte delle spiegazioni, il presidente Trump ha dato una mano al primo ministro Natanyahu nell’opera di annientamento dello stato palestinese.

Anche la prospettiva storica e la cultura dovrebbero essere prese in considerazione. I regimi di Israele e degli Stati Uniti sono complici nel condividere un principio in politica estera: la ragione del più forte. Che nega i “diritti umani”, ritiene che “al vincitore spetta sempre l’oro e la terra” e “guai ai vinti”. Il terzo pilastro della strategia di sicurezza nazionale di Trump è “preservare la pace attraverso la forza”.

Il colonialismo, per quanto inammissibile per il diritto internazionale di cui è una flagrante violazione, è giustificato da entrambi i paesi. E poiché gli americani e gli israeliani avranno previsto e dato per scontato un “giorno di rabbia” tra i palestinesi e le proteste dei musulmani in seguito all’annuncio di Trump, questo rivela una provocazione ancor più profonda.

La posta in gioco è la percezione dell’Iran come fonte di instabilità in Medio Oriente. Israele considera l’Iran un nemico mortale, un pericolo esistenziale. Una percezione condivisa da Washington. Una simile tensione, un simile attrito, come ha affermato il Gruppo di crisi, ha fatto sì che Stati Uniti e Israele abbiano deciso “di ridimensionare l’Iran”. Le due crisi e la loro interazione possono aumentare la possibilità, intenzionalmente o inavvertitamente, dello scontro.

Che alcuni degli stati della regione possano partecipare all’alleanza israelo-americana e che la causa palestinese possa essere usata come una pedina da altri, semplicemente fa riferimento al fatto che gli stati in questione, incluso Israele, hanno strategia e strutture socio-politiche specifiche. Dovrebbero essere capite queste specificità, lasciando perdere miti identitari del “popolo”. I timori e le esigenze di sicurezza di questi stati non dovrebbero essere messi sullo stesso piano.

versione originale in inglese

traduzione a cura di Angelica Fei Barberini

Gerusalemme capitale. La posta in gioco ultima modifica: 2018-02-03T19:29:53+01:00 da KENNETH BROWN
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