La nuova chiusura di Wuhan ci conferma che il virus non si sradica, ma si mitiga, come ci spiegava Tomas Pueyo nel suo saggio più lucido ed esemplificativo di questo nuovo tempo. Siamo solo all’inizio di una lunga quadriglia, in cui il contagio ballerà attorno a noi. Dovremo abituarci a tenere costantemente gli occhi sugli indicatori dell’emergenza per capire quando tornare in quarantena. Sarà una sorta di fixing di borsa, che quotidianamente c’informerà di cosa sta accadendo nelle nostre città, nelle nostre scuole, nelle nostre aziende.
Tutto dipenderà dal cosiddetto R-Zero, che è l’indicatore che misura la contagiosità di un singolo portatore del contagio, anche se asintomatico.
Misurare il contagio sarà una funzione decisiva, la base del governo di un paese.
Sarà come battere moneta, come amministrare giustizia, come gestire i canali di informazione televisiva. Sarà quanto mai confermata, come principio massimo di autorità, la metafora che Mauro Magatti nel suo saggio Oltre l’infinito (Feltrinelli) pone a base della nuova società computazionale: è certo quel che è vero, è vero quel che è misurabile. Anzi questa formula sarà corretta con un participio passato: è vero quel che è misurato. È l’atto del misurare, del calcolare, del dare una grandezza certa a un fenomeno invisibile quale il contagio, a rappresentare e concentrare il potere di governo.
Nel suo profetico libro Spillover, David Quammen ci spiega come l’epidemia sia decifrabile solo con il linguaggio della matematica. Il contagio è una figura matematica, un vero grafo, un insieme di connessioni da cui si ricavano regole e proporzioni precisamente calcolabili, appunto.
Prima fu la religione il linguaggio e il sistema valoriale a cui si ricorse per dare una risposta alla domanda di protezione nel corso delle epidemie medievali e dei primi secoli dell’era moderna. Santi o santoni si alternavano a concedere indulgenze o minacciare penitenze per scongiurare la collera divina, di cui il contagio era inevitabilmente la conseguenza. Poi toccò alla politica, mediante l’urbanistica prima e la sanità poi, a provvedere all’emergenza delle successive pestilenze: le città divennero più pulite e gli ospedali più accoglienti. In entrambi i casi l’epidemia affermò la centralità di un sistema di governo, prima teocratico e assolutista, poi aristocratico e scientista. Lungo questo crinale la democrazia diventava un sistema che raccoglieva e faceva valere la domanda sociale di sicurezza. L’inaffidabilità delle chiese, e poi delle corti, e infine degli stati oligarchici nell’assicurare la salute pubblica diede forza alla partecipazione popolare alla cosa pubblica. Guerre ed epidemie sono i due stati di emergenza decisi dalla democrazia ma non combattuti da essa. La democrazia si ritira nel corso dei combattimenti per assicurare più efficienza alla strategia nazionale contro l’epidemia o contro il nemico.
Oggi siamo a un passaggio di fase. Da tempo era in incubazione la pretesa di una classe di scienziati del calcolo di avere mano libera nelle istituzioni. La potenza degli algoritmi nella risoluzione di ogni genere di problema, anche i più complessi e sociali, suggerisce di avviare un graduale passaggio di poteri reali dai rappresentanti ai calcolanti. Negli anni Novanta uno straordinario e profetico filosofo sociale come Paul Virilio già parlava di “democrazia automatica”. Dopo l’11 settembre, l’incombere del terrorismo globale autorizzò gli stati ad appoggiarsi ad agenzie di consulenti che guidavano decisioni vitali. L’estendersi della forza di meccanismi di intelligenza artificiale nell’analisi e raccolta di dati pulviscolari ha permesso l’attivazione di strategie di microtargeting sempre più chirurgiche. Cambridge Analytica fu l’emblema di questa frontiera in cui i big data sono la premessa per campionare e trasformare l’opinione pubblica, mediante un’infinità di canali di dark advertising, di comunicazione riservata che parlava a un solo utente.
La lunga cavalcata cominciata nel XVII secolo, il tempo della grandi scoperte scientifiche che mutarono la geometria dei poteri terreni, introducendo il protagonismo degli esperti, oggi arriva a destinazione. In un romanzo visionario, come fu Il cerchio di Dave Eggers, il capo del fantomatico social globale che raccoglie l’intera popolazione terrestre dice a una stupita neo assunta: ma se noi sappiamo tutto di tutti a che ci serve la democrazia?

È una domanda che oggi torna nel gorgo del coronavirus: come e chi deve sapere tutto di questa pandemia che produrrà ancora migliaia di vittime nel pianeta?
In queste settimane gli stati si sono arrabattati per colmare il gap che li separa dal modello de Il cerchio. Oggi bisogna sapere molto, se non tutto, per fronteggiare un fenomeno che non a caso ha la stessa fisionomia, potenza diffusiva, vocabolario e meccanismi di relazione della rete. Internet e coronavirus sono cugini, se non proprio fratelli. L’infezione che spaventava i nostri informatici fino a Natale era solo quella di un malware o di un hacker intrusivo. Ora il mondo si sta strappando i capelli per capire come decifrare questa nuova rete, come disegnare il grafo di asintomatici che diffondono il virus. Paolo Giordano nel suo instant book Nel contagio (Einaudi) ci dice che “Il contagio è un’infezione della nostra rete di relazioni.”

Quali relazioni si sono infettate per prima e con quali conseguenze? pensiamo a cosa è accaduto in Lombardia da fine gennaio, quando già su Google trends erano evidenti i segnali di una lunga incubazione di sintomi influenzali che sulla rete venivano ricercati con un frequenza cinque volte superiore alla media degli ultimi cinque anni. Pensiamo a cosa ha significato l’incidente ferroviario del Freccia rossa, il 6 febbraio, alle porte di Milano, con il congestionamento di tutto il piano di trasporto locale, che toccava proprio le tappe ormai tragiche del contagio: Codogno, Lodi, cintura milanese, Bergamo, Brescia. E poi il focolaio acceso dalla partita Atalanta Valencia, il 19 febbraio. Tutte queste relazioni indotte e moltiplicate dalle circostanze locali come hanno prodotto contagio? Sono domande che ancora oggi rimangono senza risposta. E sono buchi neri che stanno minacciando la democrazia. Uno stato, un sistema, una classe politica che non dà la sensazione di sapere come e quando poter rispondere non è in grado di reclamare rappresentanza e rispetto.
Tanto più se attorno a noi si moltiplicano i centri di calcolo del fenomeno: centri di ricerca, gruppi universitari, agenzie internazionali, addirittura banche o istituti finanziari stanno quotidianamento battendo la moneta dei dati, estendendo, complicando, confondendo lo scenario. E poi i veri titolari di queste informazioni: il Gafam (Google, Amazon, Facebook, AliBaba, Microsoft). Sono loro che detengono l’intera gamma delle risposte. Non solo quantitative, quanti e come hanno cercato in rete quelle parole-chiave e cosa hanno comunicato fra loro. Ma anche dinamiche, come si sono mossi. E infine soprattutto qualitative: quali sentimenti, emozioni, sintomi hanno denunciato e combinato tra loro.
Questo mondo parallelo, questo universo riservato e privato, è la vera caverna di Aladino. Google si è reso conto di non potersi sottrarre allo sforzo contro il contagio e spontaneamente ha addirittura annunciato che libererà dati utili per georeferenziare nelle zone nevralgiche i comportamenti sospetti. Ma non è di questo che si tratta.
Non si può affidare in appalto la zecca. Accadeva nel medioevo, in cui banche private battevano moneta. Non a caso era il tempo delle signorie. Oggi sono passati quattro secoli dalla pace di Westfalia, in cui sono nati gli stati moderni. Una comunità nazionale si costituisce in stato se ha il controllo delle funzioni sensibili di una società: sicurezza, informazione e amministrazione.
Carl Schmitt diceva che era il monopolio della violenza che determinava uno stato. Oggi è l’autonomia e sovranità nella gestione dei dati. Senza poter gestire l’accessibilità, la trasparenza e la condivisibilità dei dati di una comunità uno stato è una derivata da altri poteri. Lo abbiamo capito all’inizio del Novecento, con il saggio sul capitalismo finanziario di Rudolf Hilferding, che uno stato senza controllare la formazione e la mobilità della massa finanziaria non aveva alcuna identità.

Oggi anche grazie al Capitalismo della Sorveglianza, di Shoshana Zuboff, sappiamo che senza interferire con quel reticolo di controllo e pianificazione sociale che gruppi privati esercitano sulle base dell’esclusivo controllo dei nostri dati individuali non è concepibile una autonomia democratica di un’entità pubblica.

Il contagio ha reso esplicito questo limite. Il contagio è mappabile solo combinando i dati in rete dei social e delle piattaforme con le celle telefoniche e i dati dei servizi local. Non a caso il GDPR, il regolamento europeo, contempla un unico caso per sospendere i vincoli di privacy individuale e autorizzare l’uso delle black box degli OTT: epidemia.
La combinazione della funzione computazionale (è vero solo quel che è misurabile) con la domanda assoluta di sicurezza (puoi decidere solo se mi guarisci) sta creando una nuova categoria di statualità: lo stato terapeutico, che s’identifica con l’efficienza con cui è prevista e circoscritta la pandemia. Il conflitto che separa la Lombardia dal Veneto, due regioni a guida leghista, ci dice che sulle ideologie e gli interessi prevalgono le rappresentanze dirette. I veneti hanno privilegiato la tutela dei singoli, lavorando sulla prevenzione del fenomeno, come si è visto a Vo’; mentre i lombardi hanno lavorato sul controllo degli apparati, puntando sulle cure ospedaliere, a valle del fenomeno. Due opzioni indotte da un tessuto socio-economico diverso che ha spinto perfino lo stesso partito in direzioni diverse.
Siamo alla vigilia di una minaccia dell’intero quadro politico. La domanda di sicurezza prevale su qualsiasi identità, soprattutto nelle aree sociali intermedie, dove si combina con la frustrazione della perdita di un primato economico. È la forma di sovversivismo dei ceti medi, di cui parlava Antonio Gramsci in un passo preciso dei Quaderni dal carcere:
A un certo punto della loro vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali, cioè i partiti tradizionali in quella data forma organizzativa, con quei determinati uomini che li costituiscono, li rappresentano e li dirigono non sono più riconosciuti come loro espressione della loro classe o frazione di classe.
Quando queste crisi si verificano, la situazione immediata diventa delicata e pericolosa, perché il campo è aperto alle soluzioni di forza, all’attività di potenze oscure rappresentate dagli uomini provvidenziali e carismatici. Come si formano queste situazioni di contrasto tra rappresentanti e rappresentati, che dal terreno dei partiti […] si riflette in tutto l’organismo statale, rafforzando la posizione relativa del potere della burocrazia (civile e militare), dell’alta finanza, della Chiesa e in generale di tutti gli organismi relativamente indipendenti dalle fluttuazioni dell’opinione pubblica? In ogni paese il processo è diverso, sebbene il contenuto sia lo stesso. E il contenuto è la crisi di egemonia della classe dirigente. […] Si parla di “crisi di autorità” e ciò appunto è la crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso.

Il terreno di confronto e conflitto di questa crisi di autorità è la potenza computazionale, la capacità di misurare e calcolare una minaccia quale il contagio. Quando fra qualche tempo saremo fuori dalle nostre case, solo una bussola che ci indica come e dove muoversi potrà permetterci di avvicinarci alla normalità. E quando avremo avviato questa normalità, solo la certezza, la fiducia che un eventuale nuovo allarme – appunto come sta accadendo in Cina – che ci strappa dalle attività che avremo riavviato, potrà garantire rispetto, obbedienza e lealtà istituzionale. La credibilità, la reputazione della capacità di prevenzione e analisi di quanto si sta innestando di nuovo sarà la base della democrazia. Senza uno stato che apra radicalmente un ragionamento sull’uso sociale dei dati, sulla trasparenza, condivisione e negoziabilità di tutti i dati non reggeremo alla rissosità e alla corporativizzazione delle quarantene. La privacy in questa logica diventa una tendina nella cabina del Titanic che sta affondando. Potremo anche tirala per non farci vedere mentre affoghiamo, ma affogheremo.

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