Soltanto nel momento della sventura ci si abitua alla verità, ossia al silenzio.
Così scrive ne La Peste Camus. E allora, in silenzio e in poltrona da molte settimane causa Covid-19, abbiamo cominciato a far girare ancora più velocemente le cellulette grigie. Abbiamo ascoltato i numeri, abbiamo visto le fosse comuni, abbiamo assistito all’esplosione dell’incompetenza di un popolo che (privato del calcio di cui sono tutti esperti) si è trasformato in un popolo di virologi-epidemiologi-tuttologi, sparando e accettando cavolate su cavolate proprio su tutto, confermando che l’analfabetismo e l’ignoranza sono più contagiosi della peste.
Dopo solo venticinquemila morti abbiamo compreso che la sanità non può più essere regionalizzata, in quanto polverizza il sistema in tanti centri di potere regionali in contraddizione tra loro. Non è più soltanto che l’aspettativa di vita alla nascita in Calabria è notevolmente inferiore a quella di un altoatesino, o che il prosperare del privato (finanziato con soldi pubblici) è stato favorito meglio dalle clientele di venti sistemi regionali, ma che il modello ospedalo-centrico, al centro del sistema e dell’interesse delle clientele, non garantisce per niente un aumento di tutela della salute (Lombardia docet). E il trentennale definanziamento del sistema sanitario nazionale, poi, ha causato l’assenza di un’assistenza territoriale e il depotenziamento dell’igiene pubblica, senza le quali, solo adesso la gente comincia a comprenderlo, non c’è la prima linea di difesa dalla pestilenza.
“Anne biseste, fame morte e peste” recita un proverbio molisano. O, come ha scritto Primo Levi, fuori da Auschwitz
la peste si è spenta, ma l’infezione serpeggia.

E allora, “Fase due”? Un profluvio di soluzioni salvifiche, mentre si perpetua la strage degli anziani che “tanto erano vecchi e per qualcosa sarebbero morti”. Forse sarebbe necessario un nuovo Piano Marshall per l’istruzione di un popolo che cominci dall’educazione civica. L’infezione che serpeggia è l’ignoranza, gli anticorpi di cui abbiamo disperato bisogno sono quelli del rispetto del prossimo, di una società solidale come collettivo di volontà prima che di uomini. La fase d.C., né dopo Cristo né District of Columbia ma dopo Covid-19, non potrà nascere sulle stesse macerie post-pandemiche di un mondo globalizzato a vantaggio di pochi e a spese della natura e dei miliardi di uomini, distrutti dalla finanziarizzazione dell’economia mondiale.
Bisognerà restituire la natura ai suoi spazi e alle sue leggi, avviare nuovi modelli di sviluppo, che a partire dall’utilizzo delle energie rinnovabili producano circoli virtuosi di consumo delle risorse del pianeta. In queste società di uomini uguali, la salute sarà tutelata dal vivere in ambienti ecosostenibili, nei quali il benessere collettivo sarà interesse di tutti, non solo dei singoli. La solidarietà consentirà di affrontare collettivamente problemi complessi, portando progresso alle genti e non solo sviluppo. Negli anni d.C. l’uomo ha solo questa possibilità, dimostrando di aver compreso cosa veramente ha portato alla peste del Ventunesimo secolo.
Utopia? No, è solo un disperato invito al silenzio per arrivare alla stessa conclusione di Camus, e cioè che
quanto l’uomo poteva guadagnare, al gioco della peste e della vita, era la conoscenza e la memoria.
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