La pandemia di coronavirus ha messo alla prova i leader di tutto il mondo. Ognuno ha reagito alla sua maniera e ora viene giudicato per i risultati ottenuti. Angela Merkel s’è affidata alla scienza. Jair Bolsonaro ha fatto l’opposto. Un po’ come Donald Trump, che ne ha approfittato per esibirsi in una serie di briefing dai toni urlati. E poi c’è Jacinda Ardern, prima ministra neozelandese che, nei giorni più bui della crisi, ha scelto di parlare al suo paese intervenendo in video su Facebook, la sera, “dopo aver messo a letto sua figlia” – dice lei. Indossando una semplice felpa, seduta comodamente sul divano di casa.
Un capolavoro in termini di comunicazione per la quarantenne prima ministra, una donna decisamente empatica e simpatica. Così ha ottenuto il supporto dei suoi cittadini quando era il momento di chiudere il paese, mettendo in atto misure severe, che hanno permesso alla Nuova Zelanda di diventare un modello nello gestione della pandemia.
Adesso Ardern s’appresta a misurare il suo successo nelle urne. Il 17 ottobre, si tengono infatti le elezioni generali. La prima ministra e il suo partito – il Labour Party, il partito laburista – vengono dati come super favoriti dai sondaggi. A una settimana dal voto, il Labour è stabile al 47 per cento, mentre il suo principale avversario, il National Party, languisce al 32 per cento.
A pesare è, soprattutto, l’abilità che Jacinda ha dimostrato nella gestione delle molteplici crisi che hanno colpito il paese negli ultimi anni – dall’attentato di un suprematista bianco che fece cinquantuno morti, all’eruzione di un vulcano che uccise ventuno persone, fino, per l’appunto, all’epidemia di coronavirus. Per Ardern i pronostici sono talmente rosei che c’è addirittura la possibilità che il Labour ottenga la maggioranza assoluta, cosa che nessun partito in Nuova Zelanda è riuscito a fare dagli anni Novanta.
Jacinda è una politica di razza. La sua ascesa è stata folgorante. A soli ventotto anni entra nel parlamento neozelandese con il Labour Party, formazione di centrosinistra. In quel momento era la deputata più giovane a sedere nell’assemblea. Nove anni dopo, nel 2017, due mesi prima delle elezioni generali, sostituisce Andrew Little alla guida del partito, che era in crollo nei sondaggi. In soli due mesi, dà nuovo vigore e forza al partito. Scoppia quella che venne chiamata la “Jacinda-mania”. I neozelandesi sono innamorati di lei e, grazie al supporto di due partiti più piccoli – tra cui anche i verdi – Ardern trionfa nella consultazione e nell’ottobre del 2017 diventa il più giovane leader nella storia della Nuova Zelanda.

Figlia di un poliziotto, Ardern cresce nella campagna neozelandese, dove è educata alle fede mormone. Nel 2005, però, Jacinda sceglie di abbandonare la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni, a causa della posizione di quest’ultima – troppo rigida – sui diritti LGBT+. Ora si dichiara agnostica. Da questo punto di vista, vale la pena ricordare che Ardern è il primo capo di governo neozelandese ad aver sfilato al pride di Auckland. Politicamente s’identifica come social-liberale e in un recente dibattito politico ha anche raccontato di aver fumato della cannabis durante la sua gioventù.
Nel 2018 Ardern fa notizia, anche fuori dalla Nuova Zelanda, quando dà al mondo la sua prima figlia, Neve Te Aroha. Diventa così la seconda leader nella storia, a livello mondiale, a partorire durante il mandato. Prima di lei, c’era stata solo l’ex prima ministra pachistana Benazir Bhutto. Dopo sei settimane di maternità, Jacinda torna al lavoro, mentre il marito resta a casa per prendersi cura della figlia. Quando Neve Te Ahora ha tre mesi, Jacinda la porta con sé a New York, all’assemblea generale delle Nazioni unite, con la speranza di “aprire in questo modo la strada ad altre donne”.

Il 15 marzo dello scorso anno, Ardern deve gestire una tragedia che sconvolge il paese. Un uomo armato irrompe in due moschee nella città di Christchurch e uccide cinquantuno fedeli, trasmettendo in diretta l’attentato sui social. Si tratta della peggiore sparatoria nella storia moderna della Nuova Zelanda. Ardern reagisce immediatamente, riformando le leggi sulle armi e mettendo al bando quelle usate nell’attentato. Inoltre, si fa ritrarre con un hijab mentre manifesta solidarietà verso le vittime della sparatoria. Un’immagine potente, che risponde al senso d’oltraggio e rabbia che si stava diffondendo nei paesi musulmani. Dall’attentato di Christchurch, la prima ministra neozelandese fa appello alla nascita di una campagna mondiale per lottare contro il razzismo. L’attentatore era infatti un cittadino australiano sostenitore del nazionalismo bianco e animato da sentimenti d’odio verso i musulmani.

La seconda grande emergenza a cui Jacinda deve far fronte è l’epidemia di coronavirus, che ha colpito anche la Nuova Zelanda tra febbraio e marzo. Ardern impone uno dei lockdown più rigidi a livello globale, ancora prima che il virus facesse i primi morti. Chiude l’isola a ogni ingresso dall’esterno, mettendo in questo modo in ginocchio il turismo, la principale fonte d’entrate dall’estero. Il 23 marzo annuncia un lockdown di quattro settimane. Vengono chiuse industrie e scuole e gli unici negozi a restare aperti sono supermercati e farmacie. In questo momento in Nuova Zelanda ci sono solo centodue casi e zero morti.
Nel resto del mondo, la maggior parte dei governi sceglie d’intervenire solo quando la situazione è molto più grave. È un approccio aggressivo, coraggioso, rischioso, ma che alla fine paga. La chiusura totale, anticipata rispetto agli altri paesi, provoca un tonfo dell’economia. Tuttavia, permette anche di ripartire prima.
Durante le conferenze stampa quotidiane, la prima ministra spiega in maniera calma il ragionamento dietro alle misure prese e invita i concittadini, che chiama “una squadra di cinque milioni di persone”, a osservare le regole e a “essere gentili”. Interviene anche in maniera più informale, con una serie di dirette Facebook, da casa sua, dove trasmette usando il suo telefono. L’empatia è la chiave del successo di questa donna, che non a caso ha fatto studi di comunicazione. Il messaggio passa. I suoi concittadini si mostrano ligi al rispetto delle regole e la pandemia è arginata.

Ora i neozelandesi sono tornati alla normalità, senza quasi più misure di distanziamento, e Ardern sembra pronta a mettersi in tasca, con facilità, un secondo mandato. Se non ci fosse stato il coronavirus, le cose forse sarebbero state più complicate. Perché Jacinda non ha mantenuto una serie di impegni elettorali. Aveva promesso di ridurre le diseguaglianze, d’introdurre una tassa sui redditi da capitale, di costruire decine di migliaia di alloggi per i più poveri. Invece, i prezzi delle case continuano ad aumentare, gli sforzi del governo per ridurre la povertà infantile non hanno prodotto i risultati sperati e sul tema della lotta al cambiamento climatico Jacinda è stata criticata dalle associazioni ambientaliste che le recriminano di non aver fatto abbastanza. Quel che è peggio, l’economia stenta a ripartire.
Tutto questo, però, ora passa in secondo piano. Ardern è l’unica leader mondiale che ha saputo anticipare e vincere la sfida della nostra epoca. In Nuova Zelanda il coronavirus ha fatto venticinque morti. Altrove, centinaia e migliaia di vittime. Mentre il mondo è un mare in tempesta, i neozelandesi possono quindi contare su una guida che ha saputo traghettare il paese da una crisi all’altra, dimostrando una lungimiranza fuori dal comune. Più che abbastanza per riaccendere la Jacinda-mania.

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!