[PECHINO]
Capita spesso di vedere cinesi con meno di trent’anni con il naso all’insù nelle grandi megalopoli costiere, da Shanghai a Nanchino, a Pechino. Non controllano il tasso di smog, per altro in deciso decremento, quanto guardano le facciate degli incombenti grattaceli, che ormai disegnano lo skyline di ogni città del paese, chiedendosi quando mai potranno comprarsi un appartamento in quei gironi danteschi del desiderio. Le quotazioni vanno ormai dai cinquemila ai quarantamila euro al metro quadrato. Case per ricchi e ricchissimi. Tante case, che ti trovi sotto il naso dappertutto, non solo nei quartieri più esclusivi.
L’interrogarsi su quando potranno entrare in quelle case è oggi forse una delle assicurazioni sulla vita stipulata dal Partito comunista cinese. Proprio la classe media professionale e competitiva, che sta spingendo il dragone sulla cresta delle onde della competizione globale, trasformando le città da incubatori delle fabbriche del mondo – com’era negli anni Novanta – a hub di servizi avanzati e complessi che supportano i circuiti finanziari e tecnologici del pianeta, oggi si scopre con una irresistibile voglia di partito.
Il modello di socialismo cinese confida proprio nello sviluppo per rafforzare l’egemonia del partito unico, rovesciando così la più robusta e accreditata analisi sociologica capitalista che vede proprio lo sviluppo delle forze produttive intermedie come il motore di quella domanda di libertà e autonomia individuale che, fino a oggi, ha corroso irrimediabilmente i regimi del socialismo realizzato.
Dal lontano 1992, quando Deng Xiaoping con il suo ormai famosissimo viaggio nel sud del Paese lanciò la corsa all’arricchimento, la Cina ha visto allungarsi i suoi sistemi sociali: il più folto numero di miliardari del mondo convive con un trenta per cento di classe media, circondata da segmenti sociali intermedi e in continua evoluzione lungo l’asse campagne-città.

Shanghai, Lavavetri all’opera su uno dei migliaia di grattacieli della città (foto di Fumiko, doraemon, Wikipedia).
Questo mosaico vive poi, come abbiamo accennato, anche un’ulteriore mutazione dalla prevalenza industriale manifatturiera a quella ormai sempre più emergente, terziaria, immateriale. L’intreccio fra i due processi determina un’effervescenza di figure professionali e ceti sociali che secondo l’accademia sociologica occidentale avrebbero dovuto già da tempo mettere sotto pressione l’assetto istituzionale ideologico del paese, esprimendo irrequietezza e irriducibilità a un modello uniforme e dirigistico.
Ma così non è.
Chi scrive non ha certo una grande esperienza di permanenza in Cina e si basa sulle comparazioni che riesce a elaborare fra le diverse percezioni avute nel corso di viaggi che fatti negli ultimi trent’anni, dal fatidico 1989 di Tienanmen.
Ogni volta che si varcava il confine cinese si cercavano indizi e segnali di un logoramento della tenuta del sistema politico, riproducendo nell’Impero di mezzo le dinamiche di svuotamento del partito unico osservato nelle precedenti corrispondenze nella Mosca di un tremolante Gorbaciov o nella Cuba di un declinante quanto coriaceo Fidel. Ma ogni volta si rimaneva stupiti di come il calabrone, sfidando ogni legge della fisica sociale, continuasse a volare, anzi si alzasse sempre più in alto, inanellando record su record nello sviluppo del paese.
Proprio queste performance di modernizzazione frenetica, che ha visto in meno di vent’anni realizzare realtà come Pudong a Shanghai, la parte più sfavillante e moderna della città, o i mille grattacieli di Pechino, o l’infinita area tecnologica di Shenzhen dove lavorano il triplo degli ingegneri di tutta la California.
Proprio queste credenziali di modernizzazione e progressiva integrazioni di quote crescenti del paese nella società dell’abbondanza hanno reso l’immagine del partito, per quanto ripetutamente offuscata da una miriade di corruzioni e malversazioni, nazionali o locali, credibile e vincente.
Rovesciando il paradigma sovietico in cui proprio l’apertura della glasnost espose il partito russo a una critica di massa sempre più dirompente – per cui più si riformava il paese più veniva bombardato il quartier generale – la città proibita della nomenclatura cinese ha rinsaldato il suo patto con il paese in virtù di una azzeccata accelerazione economica. In sostanza, a Pechino più competizione e più pluralismo produttivo hanno creato le condizioni per chiedere più partito e più governo potente.
Innanzitutto, dobbiamo constatare che il miracolo è figlio della specificità antropologica cinese: ottomila anni di storia in cui il concetto di libertà non ha mai fatto capolino. Mi spiegava un docente dell’Università di Beida nella capitale:
La nostra scrittura conta migliaia di ideogrammi e, di questi, nessuno indica formalmente il concetto di libertà democratica. Ci sarà un motivo.
La libertà i cinesi non sanno nemmeno come scriverla. Ricordo infatti che in piazza Tienanmen, nel fatidico maggio cinese, i giovani che vennero poi massacrati la notte del 4 giugno dovevano ricorrere all’inglese per comunicare il concetto di libertà e democrazia.
In questo Confucio batte Popper: una società dev’essere sicura e pianificata per essere giusta e vivibile, e non esposta al capriccio occasionale di individui.
L’altro dato che spiega l’attualità dei comunisti cinesi riguarda proprio la storia della repubblica popolare. Mao, come si sa, si guadagnò i galloni di leader proprio unificando il paese ed emancipandolo dal dominio straniero, prima giapponese e poi occidentale. Poi creò quella sorta di sincretismo ideologico, in cui il confucianesimo veniva ibridato dal leninismo, combinando la tradizione gerarchica del familismo cinese con l’idea di un egualitarismo territoriale, le famigerate comuni. Nel contesto agricolo, quel velleitarismo ideologico di comunismo primitivo produsse la tragedia del “Balzo in avanti”, con i milioni e milioni di morti per fame.
La rivoluzione culturale scosse un paese sull’orlo della prostrazione, mettendo in campo l’abbaglio di un misticismo militante, con le guardie rosse che contestavano il primato degli anziani, rompendo regole e vincoli che incatenavano il paese da millenni.
Il genio di Deng Xiaoping fu proprio quello di capire che la Cina poteva diventare una potenza mondiale non resettando, ma metabolizzando queste due terribili esperienze, costruendo su quei morti un modello inedito: anarchismo vitalistico, con il famoso invito “arricchitevi”, ma dentro uno schema di periodico accorciamento della società.
Ogni volta che si allunga troppo la distanza fra i primi e gli ultimi è il partito che interviene e riempie i vuoti.
La stessa drammatica vicenda di Tienanmen, che durò tre settimane, esponendo le lacerazioni del paese a tutto il mondo, spiega proprio le mille incertezze e i ripensamenti che si alternarono al vertice del partito prima di dare l’ordine della repressione.
Probabilmente se, con una mossa che rimane ancora insoluta e inspiegata, l’allora segretario Zhao Ziyang non avesse deciso di forzare lo stallo determinato dal confronto fra conservatori e riformisti uscendo dalla città proibita per incontrare, cosa assolutamente fantascientifica agli occhi dei regimi comunisti del mondo, i contestatori in piazza in una lunare notte del 20 maggio, l’equilibrio si sarebbe protratto ancora per vari giorni e Deng avrebbe avuto modo di trovare una soluzione meno traumatica. Ma il senso di quella prova di forza rimane, come riconobbero molti degli stessi contestatori qualche anno più tardi, quello di riportare la surriscaldata economia cinese sotto controllo, limitando gli eccessi.
Questa era storia, oggi il quadro appare diverso, ma con un legame profondo a quei giorni: la Cina è ormai lanciata alla conquista del primato mondiale, economia e tecnologia stanno ridisegnando la mappa del paese. Il gruppo di testa di gestori degli affari sta allontanandosi troppo dalla pancia professionale e intraprendente. I sospiri di chi guarda ai grattacieli chiedendosi quando mai potrà entrare in una di quelle case si fanno sempre più affannosi.
Non sono gli emarginati o i settori assistiti, come pensionati o ex operai, ma proprio la pupilla del regime, i giovani neo laureati, intraprendenti, globalizzati e competitivi, che si sentono schiacciati da una disparità di mezzi e di speranze. Sembra quasi di tornare alle origini del Sessantotto europeo: non la fabbrica ma il successo personale è il motore della rivolta. Sono questi giovani che oggi chiedono di iscriversi al partito per contribuire a un taglio degli eccessi. A Shanghai e Shenzhen, le due locomotive degli affari e della ricerca, si segnalano le domande più numerose: si chiede più partito per avere più supporto internazionale nella concorrenza globale e più protezione locale per la vita quotidiana.
Del resto se dalla Cina si guarda ora in Occidente non si vede certo un’abbagliante modello sociale progressivo, dove la potenza della libertà si declina in una società aperta e affluente. Non senza sadismo, i cinesi trovano subito il pretesto per chiederti come mai tocchi a loro dover difendere il carattere aperto e trasparente delle relazioni socioeconomiche, e ti sollecitano a valutare come da qualche anno nessuno più gli chieda di procedere sulla strada della democrazia.
Rimane qualche rimasuglio di scrupolo sui diritti umani, ma non è la dinamica istituzionale a fare più scandalo. Del resto, scriveva qualche giorno fa il Daily News, giornale ufficiale di lingua inglese, se persino nella pomposa Europa ci si interroga sulla sostenibilità della democrazia diventa difficile rivendicarla con noi.
Niente democrazia ma tanta politica. Il primato politico che riassume l’essenza del modello cinese – anche nella tecnologia l’algoritmo lo decidiamo noi e funzionano i nostri, mi è stato detto – si ritrova valorizzato proprio dalla spirale dello sviluppo: conflitti e contrapposizioni, che non mancano nel mosaico cinese, sono il motore di una continua mediazione politica che il partito comunista, come tecnostruttura sociale, gestisce quotidianamente.
Questo in ultima analisi mi pare il punto su cui concentrarci: la politica, il partito, come luogo di elaborazione e decisione comune, come bene comune che interviene e interferisce nei processi di poteri sempre più ingovernabili, quali la finanza e la ricerca.
Scriveva nel 1940 Lin Yutang, un profetico giornalista cinese nazionalista, in un curioso prototipo di reportage giornalistico pubblicato nel pieno della guerra mondiale da Bompiani, che:
anche se potesse prodursi un sommovimento catastrofico, come il regime comunista, l’antica tradizione di individualismo, tolleranza, moderazione e buonsenso, infrangerà il comunismo o lo trasformerà in modo irriconoscibile.
Qualcosa del genere sta avvenendo: l’ibridazione fra un istinto strategico, una visione che non a caso ha prodotto la cultura della guerra senza combattimento di Sun Tzu, e l’anarchico individualismo molecolare dei cinesi sta dando forma a una buona marca di politica, che per una volta non patisce né la velocità né la credibilità del turbocapitalismo.
le precedenti corrispondenze di viaggio dalla Cina di Michele Mezza
In Cina fa capolino la società post-industriale
La muraglia (digitale) cinese
Se il Grande Fratello incontra Confucio
L’inquietudine della classe media
L’ora della borghesia cinese

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1 commento
Complimenti, bellissimo articolo. Analisi impeccabile, contenuto prezioso. Se si potesse imporne la lettura nell scuole superiori, eviteremmo che certi cialtroni arrivassero al governo.