Dati privati e identità pubbliche: come costruire un blocco eversivo antistatale

Un nuovo welfare non può non basarsi sulla capacità di dare un senso pubblico, una dimensione da beni comuni al vero petrolio del XXI secolo.
MICHELE MEZZA
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Diceva Benjamin Disraeli, uno dei più prestigiosi leader conservatori dell’Inghilterra del XIX secolo, che ci sono tre modi per mentire: le bugie, le menzogne e le statistiche. Le infinite elezioni americane hanno dato un’ampia prova di tutte e tre queste tipologie, grazie all’inesauribile vena del presidente uscente. Ma è il terzo modo di mentire, secondo Disraeli, che segnala un buco nero ineludibile: senza dati autorevoli, legittimi ma soprattutto efficaci, ogni decisione diventa un arbitrio. 

Non possiamo infatti ignorare che nelle 376 contee americane in cui si è votato, e dove il virus ha mietuto la più alta percentuale di vittime, proprio Donald Trump, grazie alle sue irridenti acrobazie sull’inconsistenza della pandemia ha raccolto il consenso maggiore. Un dato macroscopico che nessuno può esorcizzare, confondendolo poi con la sconfitta finale. Trump con il suo eversivo negazionismo spicciolo, che colpiva non tanto l’idea di virus quanto il ruolo pubblico nel suo contrasto, non solo non ha perso voti, ma ha trovato il modo di trasformare un’armata raffazzonata per quanto ingente in una forza politico ideologica coriacea e radicata in tutti gli Stati Uniti. Più dei Tea party, che ora al suo cospetto sembrano dei riflessivi circoli degli scacchi, la sua è una destra vociante ma concretissima, ancorata alle pulviscolari moltitudini della provincia passiva americana.

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In maniera non dissimile, sta saldandosi nel nostro paese una vandea immunitaria, che contestando ogni decisione amministrativa che ponga limiti al fare sta superando persino il perimetro del sovranismo salviniano, reclamando una carica antiistituzionale ancora più visibile e debordante.

Il motore di questa nuova ondata di una destra neo poujadista è la contestazione dell’oggettività della scienza, meglio dei numeri per legittimare l’intrusione dello stato.

Una posizione che potremmo definire di “neo sovversivismo dei ceti dirigenti”, come preconizzava Gramsci, che da forma a un blocco sociale caratterizzato da figure e interessi che connettono i secondi fino ai penultimi, contrapposto a un’alleanza fra i primi e gli ultimi che caratterizza il fronte progressista. È stata questa la geografia sociale dello scontro fra Biden e Trump, è proprio nel vitalismo di questo neo sovversivismo che l’apparentemente screditato e logorato presidente uscente ha trovato risorse ed energie per vendere cara la pelle.

Così come in una Lombardia martoriata dalla concentrazione del virus e da macroscopici errori – sia ideologici che di pura gestione di interessi locali – del vertice regionale comunque non appare alle viste una sufficiente reazione che possa portare a un radicale ricambio di governo.

Al di là della becera propaganda elettorale, qui affiora un tema fondamentale, che parla da tempo ai sistemi istituzionali e finora è stato recintato in ambiti specialistici o addirittura maniacali: il ruolo del calcolo nella nostra vita.

La pandemia ha reso evidente questo fattore, ossia la capacità non di misurare semplicemente gli effetti di un fenomeno ma di desumerlo, matematicamente nelle sue prodromiche avvisaglie, per dare agli uomini la potenza di una previsione precisa e deliberativa. La statistica, dileggiata da Disraeli, in realtà nasce – come la radice del suo stesso termine dichiara –come affermazione del potere degli stati, anzi di uno stato, l’impero britannico, in quel XVII secolo che in Europa vedeva insanguinare città e campagne da guerre religiose e persecuzioni dei primi ceti professionali scientifici che contestavano le cosmogonie papali e imperiali, da Giordano Bruno a Galileo Galilei fino all’esplosione dei grandi architetti del nuovo universo razionale come Newton e Copernico, mentre in Inghilterra si prefiguravano le prossime rivoluzioni borghesi con il colpo di mano di Cromwell. William Petty e John Graunt, artigiani che con i numeri divennero governanti, studiando le epidemie del tempo ricostruirono, raccogliendo i certificati di morte delle vittime, i primi database dove si mappava la comunità urbana. Da qui prese forma lo stato compassionevole, che curava per comandare.

 I numeri di quelle statistiche di corte permettevano di dare autorevolezza, ma anche efficienza all’amministrazione centrale, perché grazie a quei dati si comprese da dove veniva e come si diffondevano le malattie. Si stabiliva così il patto sociale fra il re e i ceti mercantili più dinamici, che riconoscevano ancora funzione e sostegno alla struttura regale in cambio di sicurezza e salute. Questo patto si è evoluto nelle varie modalità in cui politica ed economia si sono combinate, fino ad arrivare, proprio nella versione americana, a quella mediazione che l’economista norvegese dello sviluppo Erik Reinert definisce il gioco delle parti fra

le politiche interventiste di Hamilton e la massima di Thomas Jefferson per cui il governo che governa meglio è il governo che governa meno. Con il passare del tempo la rivalità si è risolta lasciando ai jeffersoniani il controllo della retorica, e agli hamiltoniani il controllo dell’economia.

Trump rovescia quest’assioma, che persino Reagan aveva tutelato, mettendo in campo gli istinti animaleschi del capitalismo minore americano. 

La pandemia, costringendo la destra a dover fare i conti con lo Stato, ha costretto i sovranisti a prendersi il governo per gestire l’opposizione allo stato. Il ring su cui si sta ancora combattendo questo scontro è appunto la contestazione alla capacità dello Stato – come invece dimostrarono Petty e Graunt nel XVII secolo – di contrapporsi alla potenza del virus con la potenza del calcolo. 

Tutto si giocherà, esattamente come è accaduto nelle elezioni americane, nella forma e nell’efficacia che l’intervento pubblico troverà. Quanto sta accadendo in Italia, con un indecoroso balletto sulle cifre delle varie regioni per contrattarne il livello di chiusura, rende esplicita quale sarà la faglia di rottura del profilo politico, se non istituzionale, che potrebbe maturare nella pandemia: la legittimità del pubblico.

È questa la posta in gioco: i limiti entro cui costringere un potere pubblico a delegare, senza nulla pretendere, a soggetti privati funzioni essenziali come la stessa cura della vita dei cittadini.
Come dice Robert Musil:

chi scrive che siamo in una nuova epoca non sa in che epoca stiamo vivendo.

Intende che nulla inizia a una data ora di un dato giorno. E infatti le Idi di marzo di questo millennio, così come quelle di Cesare del 44 a.C., covavano da tempo. Dalla fine degli anni ’70, quando comincia un impercettibile, allora, ma poi sempre più corposo trasferimento di funzioni e poteri dalla cerchia delle istituzioni pubbliche a quelle infrastrutture tecnologiche che privatizzano dati e identità, collaudando intelligenze automatiche che predicono e condizionano i comportamenti dell’umanità.

Lungo questo crinale si sgretolano gli Stati, i partiti, i sindacati, le masse diventano moltitudini di individui separati ma omologhi e la democrazia, come annunciava già Paul Viriliò negli anni ’90, diventa audience, il consenso si trasforma nel sondaggio. 

Nell’evoluzione di questi poteri, il ceto medio occidentale si trova assediato e minacciato da una globalizzazione che non controlla: una parte diventa élite globale, un’altra neoproletariato benestante. Quando proprio questo status benestante si erode, scatta la rivolta populista e antielitaria, contro l’alleanza fra i primi e gli ultimi che sorregge lo stato del welfare. Prima il liberismo cerca uno spazio, con Reagan e la destra finanziaria, poi si cerca un patto con la sinistra progressista in una terza via senza risorse né strategie. Arriviamo al passaggio di millennio, in cui lo scontro di civiltà, sancito dall’11 settembre, diventa la cortina di fumo per nascondere un processo di ristrutturazione dello Stato che comincia a essere smantellato dalle nuove tecnologie del calcolo: smart city, smart working, smart democracy. Il numero diventa linguaggio, il calcolo è il valore in base al quale si decidono le gerarchia fra calcolanti e calcolati. Solo quel che è certo è vero, solo quel che è misurabile è certo. Mauro Magatti nel suo saggio Oltre l’Infinito sancisce la nuova regola che mette al centro del sistema sociale del pianeta la potenza di calcolo: solo i calcolanti governano. 

L’arrivo del virus accelera il dualismo fra potere pubblico e interesse privato. La pandemia sgretola ogni resistenza delle amministrazioni pubbliche, locali e nazionali. Solo il sistema di calcolo si erge a controparte. I dati, i numeri, le misure diventano l’unico linguaggio che può contrastare gli effetti della pandemia.

Ogni decisione, a ogni stadio deliberativo, in ogni consenso istituzionale, cerca un numero per legittimarsi: l’indicatore di contagiosità RT diventa una zecca. Chi lo controlla batte moneta. Non sono i medici a governare le strategie immunitarie ma i matematici e gli statistici. La vecchia massima di Disraeli diventa reazione popolare: il dato con cui decidi di chiudere la mia attività è una bugia, è inattendibile.

In molti casi è persino vero. Lo spiegano gli epidemiologi o i microbiologi, come Andrea Crisanti a Padova o massimo Galli a Milano: senza un contesto ambientale e territoriale RT dice poco. Ma allora dove sono i dati veri? Basta chiederlo alla rete, e arrivano decine di siti e app che vendono dati forti, il più delle volte comprati da Google e Facebook, che permettono di prevedere il configurarsi di un focolaio di incubazione (non di contagio avvenuto) con due settimane di anticipo.

Ecco il buco nero in cui si consuma lo stato moderno: i dati pubblici diventano patrimonio privato, e le identità private dei cittadini diventano materia pubblica per gli OTT che vi addestrano i propri algoritmi. Lo Stato si scopre disarmato, sguarnito, inattendibile. La piazza lo incalza e chiede libertà di intrapresa.

Un nuovo welfare non può non basarsi sulla capacità di dare un senso pubblico, una dimensione da beni comuni al vero petrolio del XXI secolo.

Tocca alla politica trovare procedure, meccanismi, dispositivi e norme per rendere efficaci e sicuri i numeri in base ai quali esercita il potere di dichiarare lo stato di emergenza, che è la vera caratteristica dell’istituzione massima della società. Senza dati si muore, e si perde la democrazia. Trump ha rischiato persino di vincere, eccitando questa reazione e speculando sul paradosso che denuncia Mariana Mazzucato quando si chiede: se lo Stato non produce senso comune, attraverso i dati e i sistemi matematici condivisi, come si fa ad avere senso dello Stato?

Dati privati e identità pubbliche: come costruire un blocco eversivo antistatale ultima modifica: 2020-11-07T19:16:00+01:00 da MICHELE MEZZA
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