Non fosse per una felice intuizione di parecchi anni fa, quasi una quarantina ormai, il nome della canadese Margaret Doody sarebbe rimasto nel limbo più o meno dorato degli studi universitari, stimata docente di letteratura comparata alla University of Notre Dame, con una propensione per l’antichistica. E invece, forse proprio grazie a quella propensione, eccola imbattersi in un Aristotele tanto inatteso quanto plausibile, investigatore in virtù della sua formidabile logica deduttiva. Successo non immediato, peraltro.
Le prime sortite (“Aristotele detective”, 1978 e “Aristotele e il giavellotto fatale”, 1980) rimangono un po’ in sordina, ma il personaggio piace, guadagna col tempo lettori sempre più numerosi, premiato da nuove avventure e da uscite accelerate, anche all’estero, dove l’affetto per lo Stagirita detective si fa crescente. In Italia la scoperta è di Sellerio, che a partire dal 1999 manda puntualmente in libreria le indagini del filosofo, una decina di titoli, sino all’odierno “Aristotele e la Casa dei Venti” (“Aristotle and the House of the Winds”, 2018, traduzione di Rosalia Coci), praticamente in contemporanea con l’edizione americana.
Non più giovanissimo e ormai stabile nel suo Liceo, dopo tanto peregrinare per le città dell’Egeo con le scuole platoniche di cui è stato fondatore, meteco ad Atene per via dei natali calcidici, e dunque macedone, non certo “cittadino”, guardato con sospetto per l’amicizia che lo lega ad Alessandro, di cui si dice sia stato precettore, Aristotele conduce vita virtuosa e i guai, o delitti, non se li va a cercare. Sono loro, piuttosto, ad intralciare il suo cammino: in immagine, quel peripatos che sta per pensare ed insegnare camminando. E pensiero in movimento sotto ogni profilo, come è ben noto ad allievi e studiosi.
Di Platone, Aristotele era stato allievo prediletto, il suo insegnamento sempre caro. Quando dall’Accademia gli giunge notizia di un messaggero siciliano giunto ad Atene con strane notizie sul conto del Maestro, si precipita, insieme al fidato Stefanos, suo consueto sodale di inchieste. Ma il messaggero arriva esangue, nulla può più dire, mentre il servo che l’accompagna non promette bene, dileguandosi non appena consegnato il messaggio, che lascia intendere come qualcuno, a Siracusa, possa presto compromettere l’onorabilità di Platone con rivelazioni spiacevoli sul suo passato nella città siciliana. E che sarà mai? Un morto, pure, c’è già cascato. Licurgo – il grande vecchio di Atene – vuol vederci chiaro e insiste perchè un Aristotele pur riluttante prenda in mano la situazione, recandosi di persona nei luoghi della congiura. Mettere a repentaglio la reputazione di Platone significa incrinare fortemente anche il mito di Atene, culla della democrazia in un’epoca dove, pure, le tentazioni autoritarie – tiranniche – restano sempre in agguato.
Gran viaggiatore, va pur detto che i soggiorni siciliani di Platone presentano più di un’opacità. Il filosofo vi giunge una prima volta nel 388 a.C., dopo aver visitato la Magna Grecia, attratto, secondo Diogene Laerzio, dai misteri dei vulcani. Alla corte siracusana di Dionisio I conosce e si intrattiene con il cognato, Dione, che mostra non poco interesse per le sue teorie, diversamente dal tiranno, che infastidito dai ragionamenti sulla virtù e sulla felicità, trama per far rimpatriare Platone e addirittura per farlo uccidere. L’episodio di Egina, dove Platone viene fatto prigioniero e ridotto momentaneamente in schiavitù, parla da sè, anche se le fonti divergono sulle attribuzioni del fatto.
Il secondo viaggio in Sicilia è di una decina d’anni dopo. Morto Dionisio il Vecchio, gli succede il Giovane, più propenso ad abbracciare le aperture “democratiche” del filosofo ateniese, sempre appoggiato da Dione, che presto però cade in disgrazia. Nuovo rimpatrio, in attesa della terza e ultima chiamata, nel 361 a.C.: Platone, già quasi settantenne, rinnova il suo desiderio di collaborare e si adopera per riannodare i rapporti fra il giovane Dionisio e Dione. Invano. Dovrà nuovamente lasciare Siracusa e nel viaggio di ritorno, a Olimpia, incontrerà proprio Dione, prossimo a tornare in Sicilia per rovesciare il regime di Dionisio. Ci riuscirà, in un bagno di sangue, prima di condividere anch’egli la triste sorte dei tiranni all’inevitabile tramonto.
Terra bellissima la Sicilia – avranno modo di constatare Aristotele e il fido Stefanos, narratore di queste sue indagini – e città munifica Siracusa, con quella sua elegante propaggine verso il mare che è l’Ortigia. I maggiorenti della città gareggiano in accoglienza, ospitali, specie Periandro, che mette a disposizione i locali della sua villa con vista sul mare. Tra un simposio e l’altro, contrasti e divisioni non tardano però ad emergere: di Platone nessuno mostra di serbare buon ricordo, la diffidenza nei riguardi di greci e ateniesi è forte, sulle memorie dei tiranni le fazioni si dividono, le contese con i cartaginesi per il controllo del territorio paiono tutt’altro che sopite, forte la paura che Alessandro, una volta sazio di Oriente, volga il suo sguardo rapace ad Occidente, mettendo gli occhi sulle “colonie greche” di Sicilia.
Le trame s’infittiscono, non c’è da fidarsi, specie dopo il brutale assassinio dell’incolpevole Periandro. E nulla sarà mai davvero casuale, visto che persino il Caso trova posto nell’Olimpo degli dèi con il dicastero di Prònoia, fato divino e razionale che governa le umane vicende. Provvidenziale, piuttosto, l’incontro con una bellissima danzatrice, Ninfadora, che indicherà la via per risolvere i tanti misteri di cui è intessuta la vicenda. Sulle orme dell’Odisseo omerico, mirabile il finale, navigando fra le isole vaganti che si stagliano a nord della Sicilia, scosse da imponenti movimenti tellurici e dalle imprevedibili folate di Eolo. Lì, fra quegli antri di terre emerse, anche i segreti di Platone, che Aristotele e Stefanos faranno in modo di consegnare all’oblio. Come dirà Benedetto Croce, meglio le opere dei loro autori, pur sempre umani fallaci.

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