“Raccontare la politica” è una serie di conversazioni con giornalisti che seguono la politica italiana, e non solo, molti dei quali con una lunga esperienza. L’idea è di ragionare sulla relazione tra politica e stampa e su come quest’interazione abbia caratteristiche peculiari in Italia, influendo sull’una e sull’altra (g.m.)
Una vita al di là e al di qua dell’Atlantico, tra stampa, televisione e insegnamento universitario. Dopo gli inizi al manifesto, una grande scuola di giornalismo e di giornalisti, Gianni Riotta è stato corrispondente da New York per varie testate, tra cui La Stampa, L’Espresso e il Corriere della sera. Ha diretto il TG1 e, per la carta stampata, il Sole24Ore. Ha insegnato all’Università di Bologna, alla Princeton University ed è ora direttore della Scuola Superiore di Giornalismo Luiss “Massimo Baldini” e del Luiss Data Lab. Con lui ytali ha cercato di fare il punto sul rapporto tra politica e mezzi di comunicazione.
Gianni Riotta, hai sempre seguito e studiato l’influenza reciproca che esercitano la politica e la comunicazione. D’altra parte una componente molto rilevante della politica è da sempre la comunicazione. Secondo te, al di là delle forme, è davvero cambiata l’interazione tra politica e comunicazione?
La politica è sempre stata comunicazione. Alcuni esempi famosi: quando Cesare vinceva una campagna militare, tornava a Roma per celebrare il trionfo; Carlo Magno si fece incoronare la notte di Natale; Napoleone, quando divenne imperatore, tolse la corona dalle mani dal papa e se la mise. E poi, ancora, si pensi a Roosevelt, Hitler e Mussolini che usarono per primi la radio come strumento di comunicazione politica o al famoso dibattito in tv tra John Kennedy e Richard Nixon.
Cosa è cambiato? Con l’avvento del digitale la comunicazione è diventata capillare. Fatti, commenti e immagini non sono più solo nei luoghi deputati, cioè non è più necessario andare al foro romano per vedere una sfilata di Cesare, entrare in chiesa per assistere a un’incoronazione, avere la radio per sentire il discorso di Roosevelt o guardare la tv per assistere al dibattito Kennedy-Nixon. Tutti abbiamo in tasca un telefonino. La grande differenza rispetto al passato è quindi che la comunicazione non parla più alle masse, ma agli individui.

Con l’avvento del digitale, i politici stanno imparando a usare i social media per liberarsi dell’intermediazione dei giornalisti…
I politici hanno imparato già da tempo a saltare l’intermediazione del giornalista. Basta guardare il voto americano del 2016, con Donald Trump che con i suoi tweet ha scavalcato la falange di comunicatori che Hillary Clinton aveva messo al suo fianco, o si pensi al modo in cui i social hanno influenzato la campagna per la Brexit nel Regno Unito. O ancora, al voto inglese di qualche giorno fa: la stragrande maggioranza dei giornalisti era schierata in un certo modo, ma la gente è andata da un’altra parte. Mentre i nostri colleghi si dilettavano a spaccare un capello in quattro, la gente normale si è chiesta “Brexit o non Brexit?”. Johnson aveva una risposta molto chiara, Corbyn molte risposte, una meno chiara dell’altra. La gente allora ha detto: tra una cosa che non mi piace ma chiara e una cosa che forse mi piace ma oscura, prendo la prima.
Il digitale ha trasformato la politica in un referendum: ti piace o non ti piace? Sei dentro o sei fuori? La sinistra, per sua natura più complessa, più problematica, stenta ad accettare la dicotomia in like e dislike, blocco o seguo. Ma oggi la politica sono i social media, perché anche la televisione e quel che resta della carta stampata li seguono.

Come cambia il compito del giornalista?
Moltissimo. Dobbiamo prendere atto di questa situazione e abbandonare il preconcetto secondo cui solo noi, i nostri amici e i pochi over sessanta che ancora leggono i giornali sono gli unici a fare informazione di qualità, mentre online ci sarebbe solo informazione spazzatura.
Certo, l’informazione di qualità va difesa strenuamente, perché è proprio il suo venir meno che sta causando il cortocircuito nel rapporto tra politica e informazione. Per farlo, bisogna però innanzitutto riconoscere che essa non coincide con il giornalismo professionale, perché a diffondere le fake news, a fare titoli falsi sono anche tanti colleghi, giornalisti professionisti. I populisti di destra e sinistra che usano la carta stampata e i talk show per diffondere notizie false, sono anch’essi giornalisti con la tessera dell’ordine in tasca e sono anche loro parte del problema.
Oggi il giornalista di qualità difendendo l’informazione difende la democrazia, perché, quello che dieci anni fa non si era visto, è che la crisi del giornalismo professionale ha portato alla crisi della democrazia. Ci sono studi negli Stati Uniti che fanno vedere come nelle piccole città, dove è scomparso il famoso giornale locale, rapidissimamente, nei cinque anni seguenti alla chiusura della testata, l’opinione pubblica si è radicalizzata a destra e a sinistra.
Chi era di centrosinistra è diventato di estrema sinistra e chi era di centrodestra è diventato estremista di destra, perché ovviamente, se tu parli sempre con i tuoi amici al bar e io sempre con i miei, non ci scambiamo mai un punto di vista intermedio.
Quello che cerco di fare, anche come direttore del master di giornalismo della Luiss a Roma, è di insegnare ai ragazzi a discutere, ragionare, dibattere, altrimenti diventeranno una generazione di gente con la bava alla bocca, incapace di dialogare con le ragioni degli altri. Oggi il giornalista deve quindi essere obiettivo e critico, capace di ragionare e di ascoltare le ragioni dell’altro.

A proposito di generazioni con la bava alla bocca, facciamo un salto nel passato. Nel 1993 sei stato conduttore di “Milano, Italia”, talk show di Rai Tre in cui ampio spazio era concesso agli interventi del pubblico in platea, che a volte assumevano toni esasperati. Secondo alcuni, i talk show hanno aperto la porta all’antipolitica. Da antesignano di questo tipo di programmi, pensi che il rapporto diretto, senza mediazioni con il pubblico, abbia fatto dei danni?
Il talk show è un elemento importante della democrazia ma, per svolgere la sua funzione, non può essere come il burattino dell’opera siciliana, dove i pupi e i cristiani vincono sempre contro i musulmani. Nei talk show di questi anni, da un certo conduttore vincono sempre i neri, mentre dall’altro sempre i bianchi. Questo è il punto da ribaltare: servono talk show dove c’è un vero confronto. Non è così perché si è sempre alla ricerca dell’audience, ma continuando in questa direzione si polarizza, si radicalizza sempre più l’opinione pubblica.
A “Milano, Italia” seguivamo la lezione del grande Walter Cronkite, che diceva: “Io non devo dire a chi ascolta cosa deve pensare, ma piuttosto: questi sono i fatti, tu pensa quello che vuoi”. Invece oggi, sempre più spesso, chi fa informazione dice alla gente cosa pensare. Se fai così, però, non sei più un giornalista, ma un propagandista. Il mestiere del giornalista è proprio combattere la propaganda.
A “Milano, Italia” non facevamo mai propaganda: se c’era qualcuno che strillava gli levavamo il microfono. C’era sempre un tentativo di abbassare i toni.
Lo stesso discorso vale per i telegiornali. I telegiornali non fanno più l’ascolto che facevano dieci anni fa soprattutto perché, radicalizzandosi, legandosi mani e piedi a una macchina politica, hanno stufato chi non appartiene a quella macchina politica, che preferisce fare a meno di guardarli.
Questo è un fenomeno globale. Non molto tempo fa ho intervistato la tua collega Lucia Annunziata e questa mi ha detto: “Se vai in America e leggi il New York Times e il Washington Post non hai letto niente perché questi sono schieratissimi con i democratici e lo dicono pure”. Al tempo stesso però, sul versante opposto, FoxNews e programmi radiofonici di successo fanno da cassa di risonanza della destra, fanno campagna permanente contro i democratici. Cosa resta del giornalismo anglosassone dei fatti separati dalle opinioni, del giornalismo non schierato? Era forse un mito? E in Italia, è ancora possibile immaginare spazi di informazione non schierati?
È solo possibile, nel senso che non c’è alternativa. Può darsi anche che non ci si riesca, che, com’è capitato tante volte nel passato vincano la piazza becera e i suoi cantori. Se questo accadrà però, non è che avrà vinto una forma di giornalismo, perché, semplicemente, la propaganda non è un’altra forma di giornalismo.
In democrazia la propaganda ha tutto il diritto di esistere, ma deve essere identificata e identificabile in quanto tale. Il giornalismo è un’altra cosa: è tentare di capire cosa uno ha in testa, non di celebrarlo o denigrarlo.
Io sono fiducioso, credo che il giornalismo di qualità e la strada del dialogo alla fine prevarranno.
Nella storia nell’umanità c’è sempre stata la diatriba tra dialogo e intolleranza. Nel Cinquecento Michele Serveto diceva ai cattolici e ai protestanti: dovete parlare, non dobbiamo metterci l’uno contro l’altro. I cattolici lo mandarono via, i protestanti lo ammazzarono, perché gli intolleranti, da una parte e dall’altra non volevano il dialogo.
Lo stesso vale per Socrate, filosofo della tolleranza, che fu giustiziato per voto popolare. Ai tempi non esistevano le piattaforme digitali ma gli ostracon, pezzi di argilla sui quali si incideva un voto. L’intolleranza non è quindi solo un fenomeno della società digitale, dato che pure nell’Atene democratica ammazzavano Socrate. Lo ricordo a quelli che amano i talk show populisti: la democrazia diretta è questo.
Quella in corso è una battaglia tra tolleranza, dialogo, convivenza civile e chiusura, società totalitaria, perché quando chiudi al dialogo, uccidi la società aperta e arrivi inevitabilmente a una società totalitaria.
È esattamente per questo che bisogna difendere il giornalismo di qualità. Nel 1944, appena liberata Parigi, il futuro premio Nobel, Albert Camus, scrive una serie di articoli in cui dice: “Abbiamo vinto, stiamo per essere liberati, ma se cominciamo a convincerci che abbiamo ragione solo noi e i nostri amici, siamo finiti”.
Oggi come allora dobbiamo continuare a dialogare. I giornalisti non sono poliziotti, non devono arrestare la gente; non sono pubblici ministeri, non devono incriminare nessuno: noi dobbiamo capire la gente e farla dialogare.
Molti colleghi preferiscono schierarsi con l’intolleranza perché questa paga meglio.
Lo spazio per il giornalismo dialogico si sta restringendo ma noi dobbiamo restare lì: non si tratta di difendere uno spazio editoriale, in gioco è la libertà di tutti noi.

In che modo in un’epoca dove le passioni prevalgono sugli interessi, chi parla in modo razionale, obiettivo, può farsi ancora ascoltare?
Non credo che le passioni dominino sugli interessi: non mi sembra che chi vota Trump o Johnson stia seguendo solo una passione. È mosso anche da interessi.
Molti di coloro che difendono il giornalismo di qualità non dimostrano passione, perché pensano che mostrare passione sia disdicevole. Nello stesso modo, molti dei giornalisti italiani di qualità non sono sui social, perché li disprezzano e non vogliono mischiarsi a quella roba lì. Restano nella loro torre d’avorio, non si sporcano le mani, se vanno nei talk show vanno solo in quelli “amici”. Così perdono il grosso del pubblico dei giovani.
C’è un bellissimo verso di Garcia Lorca che dice: “L’unico modo per raccogliere i gigli bianchi è entrare con le scarpe nel fango”. Se tu vuoi cogliere i gigli bianchi della verità, della libertà, della democrazia, devi andare con le scarpe nel fango.
Oggi il fango sono i social media?
No. Il fango sono coloro che usano i social media per propagare il populismo, il nichilismo, per infangare gli altri. L’intolleranza c’è sempre stata: nel giornalismo di carta non c’era forse Il Borghese, giornale apertamente fascista? O la campagana contro gli anarchici, oggi denunciata dal presidente Mattarella, non fu fatta sui grandi giornali e sui grandi telegiornali? Furono i social media di allora a dire la verità.
I social media sono uno strumento, non il male.
Politica e media. Parla Augusto Minzolini
Politica e media. Parla Nino Bertoloni Meli
Politica e media. Parla Maria Teresa Meli
Politica e media. Parla Barbara Tedaldi
Politica e media. Parla Lucia Annunziata
Politica e media. Parla Giorgio Frasca Polara
Politica e media. Parla Marco Di Fonzo
Politica e media. Parla Stefano Menichini
Politica e media. Parla Nico Perrone

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!